Ieri guardavo un video realizzato da una coppia di youtuber, il resoconto di un loro viaggio in Russia. Li vedevo andare in giro, fare quello che le coppie fanno solitamente in pubblico come tenersi per mano, coccolarsi, vivere la loro relazione nel modo più naturale. Non si preoccupavano degli sguardi della gente quando manifestavano in pubblico il loro affetto; non sembravano temere gli insulti dei passanti e nemmeno avevano paura di poter essere attaccati fisicamente, inseguiti e malmenati. Guardavo quel video e invidiavo la spensieratezza con cui vivevano la loro relazione apertamente in un paese nel quale, secondo i più recenti sondaggi, il disprezzo e addirittura l’odio verso le persone LGBTQI+ è in costante aumento tra la popolazione, fomentato da assurde leggi e da una totale assenza di protezione contro i comportamenti omofobi.
I due giovani del video non si sono dovuti preoccupare di nascondere la loro relazione perché sono eterosessuali.
Essere parte di una minoranza ti rende particolarmente sensibile a certi dettagli, al significato dell’idea di normalità, a quanto i privilegi siano tali proprio perché determinate persone non si rendono conto di esercitare un diritto che a te viene negato. Ieri guardavo il video e pensavo che ciò che per quei due ragazzi è assolutamente scontato, per me sarebbe motivo di preoccupazione e probabilmente io, un viaggio in paesi apertamente omofobi con Maurizio, non lo farò mai, almeno non così, potendo esprimere serenamente la mia affettività, potendo essere liberamente me stesso.
Privilegio. E il privilegio, riflettevo, è anche frutto del valore che la nostra società attribuisce arbitrariamente alle caratteristiche delle persone. Il privilegio è anche figlio della pervasiva quanto artificiale ideologia della normalità, che governa il pensiero occidentale da almeno due secoli a questa parte. Il privilegio di non doversi nemmeno definire normale, perché se rientri in quella che viene definita maggioranza non ti poni proprio il problema.
Difettoso, è il modo in cui ti senti quando pensi che alcune tue caratteristiche vengono considerate indesiderabili, anormali, deficitarie. Succede per l’orientamento sessuale, per l’identità di genere; accade per la cultura o la religione di appartenenza, o perché alcune caratteristiche del nostro corpo, della mente o dei nostri sensi vengono classificate come minoritarie rispetto alla maggioranza della popolazione – in un determinato luogo e periodo storico – e automaticamente giudicate come inferiori, difettose, deficitarie.
Deficit, mancanza. Ma rispetto a che cosa? Rispetto alla norma, alla media. Abbiamo attribuito un valore positivo al semplice fatto di trovarci, per puro caso, a condividere determinate caratteristiche con un numero maggiore di persone. Abbiamo distorto la realtà fino a pensare che “normale” sia sinonimo di “naturale”, quando ne è l’esatto contrario. In natura non esistono categorie, non c’è nemmeno bisogno di parlare di diversità perché la diversità è lo stato naturale delle cose, le differenze sono semplici caratteristiche.
Noi, invece, viviamo nella convinzione che la frequenza con cui determinati tratti si presentano nella popolazione sia un indice del valore di una persona, e in base a tale giudizio determiniamo il passato, il presente e il futuro di quella persona.
Nella prefazione a un documento di un ente pubblico che avrebbe voluto sottolineare l’importanza del linguaggio nel rapportarci alle persone disabili, leggo che la disabilità non è una caratteristica individuale, ma è “il risultato dell’interazione tra persone con deficit fisici, mentali, cognitivi o sensoriali e un’organizzazione sociale che ne limita attività e possibilità, ponendo sulla loro strada barriere ambientali e comportamentali”
La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Deficit, mancanza, difetto. Una frase, quella del documento, che vorrebbe far riflettere sul significato della parola disabilità e invece sottolinea il valore che per la società assumono determinate caratteristiche individuali: deficit. Ma allora, se la disabilità è il risultato dell’interazione tra una persona e l’ambiente, se non è un attributo individuale, chi stabilisce che quella specifica caratteristica è un deficit? Chi stabilisce che muoversi utilizzando una carrozzina, comunicare attraverso la lingua dei segni o avere una differente organizzazione del sistema nervoso è un deficit?
La società, la stessa società che pone quelle barriere ambientali e comportamentali di cui si parla nel documento. È un circolo vizioso dal quale sembra davvero difficile uscire, a meno che non cominciamo a comprendere quanto possa essere discriminatoria l’idea stessa di normalità, un’idea che porta dentro di sé quella di anormalità, di deficit, di guasto da riparare. Un’idea che favorisce e mantiene privilegi come il poter esprimere liberamente la propria sessualità, o poter accedere a servizi e mezzi pubblici senza alcuno sforzo; un’idea, quella di normalità, che disabilita chi è differente dalla maggioranza, creando di fatto l’idea stessa di disabilità.
Ieri guardavo il video di quel viaggio e pensavo a quanto poco basti per sentirsi tagliati fuori, e a quanto poco invece basterebbe per trasformare quelli che ancora oggi sono dei privilegi di alcunǝ in diritti di tutte le persone. Pensavo, guardando quel video su YouTube, che concedere a te un diritto del quale oggi godo solo io a me non toglie nulla, anzi, effettivamente mi fa perdere potere nei tuoi confronti. E forse proprio per questo, vale la pena di pensarci su.