Natale

Foto: un albero di natale illuminato in una stanza buiaIl Natale piace a tanti bambini perché ricevono i regali, possono giocare coi loro amici e alzarsi tardi al mattino.

Io ho sempre avuto le idee molto chiare, fin da piccolo: a me il Natale non piaceva, io invece adoravo la vigilia per la sua ritualità, per quei gesti che si ripetevano in famiglia, anno dopo anno; adoravo la vigilia perché il menù a cena era sempre lo stesso, e anche le persone che partecipavano alle immense tavolate allestite nel salone di casa mia, erano sempre le stesse.

C’erano momenti della preparazione al Natale che si infilavano in modo ossessivo nei miei pensieri settimane, forse mesi prima. Uno di quelli era il presepe. Era tradizione per noi costruire un presepe ogni anno ma, e in questo mio padre era peggio di me, doveva essere identico a quello dell’anno anteriore. C’era qualcosa di rassicurante in questa storia del presepe che andava disfatto e poi ricreato identico, nell’osservare mio padre che costruiva con cura il telaio in legno e poi col sughero modellava i tre livelli in prospettiva: quello più basso, con la grotta e il laghetto, era popolato da pastori più grandi, poi il livello di mezzo – una stradina che portava al ponticello sulla cascata – veniva riempito da abitanti di grandezza media e infine il livello superiore, quello in lontananza, con le casette illuminate, il castello di Erode e i pastori minuscoli.

Era rassicurante, la routine della vigilia, col riposino obbligatorio dopo pranzo, fingendo di dormire per ascoltare i rumori che provenivano dalla cucina e gli odori, le voci. E restare lì a sognare il momento in cui ci saremmo seduti a tavola davanti a tutto quel ben di Dio e le risate, le chiacchiere e poi la tombola e gli struffoli.

Ma la dolcezza rassicurante dell’attesa e della preparazione di quel giorno di festa veniva sistematicamente disintegrata dalla realtà.

Gli ospiti facevano un casino infernale, parlavano sempre tutti insieme e io non riuscivo a capirci mai niente. Nessuno poi sembrava interessato ai miei esperimenti e ai circuiti elettrici che costruivo, nessuno. La cena della vigilia, dal momento in cui ci sedevamo a tavola, prendeva un ritmo frenetico. Il tempo scorreva a tratti a velocità raddoppiata, mentre in altri momenti sembrava sospendersi intorno a me, come quando arrivava l’immancabile rimprovero per aver detto qualcosa fuori luogo, oppure quando scavavo nella mia fetta di panettone alla ricerca di ogni minima traccia di frutti canditi e no, non si fa a tavola questo scempio, “devi imparare” a mangiare il panettone, e il panettone si mangia coi canditi. E insomma, il pensiero unico del panettone era in linea con quello dei fichi secchi che non vanno aperti per nessuna ragione alla ricerca del verme che, lo giuro, io l’ho visto l’anno scorso il vermiciattolo nel fico secco e invece no, lo mangi intero o non lo mangi: come fanno tutti.

Finiva sempre così, con quella sensazione amara di un’attesa che veniva frustrata. Venivo mandato a dormire dopo un giro di tombola mentre nel salone, accanto alla mia cameretta, la festa continuava e i grandi giocavano, bevevano e ridevano.

Paradossalmente, anche quella era parte della routine, la certezza che mi sarei dovuto afferrare al momento della preparazione, godermi il prima, la parte in cui la ritualità governava ogni gesto, tutto era ordinato e prevedibile. Era una certezza anche il fatto che, una volta infilato Gesù bambino nella mangiatoia, sarei filato a letto.

Eppure ogni anno torna, quella sensazione di piacevole attesa. Ogni anno vado al mercato a comprare gli ingredienti per resuscitare almeno in parte quella tradizione, la fondamentale ripetizione del menù di mia madre, almeno di una sua parte. Ogni anno, inspiegabilmente, timidamente, di fa viva quella sensazione di emozionante attesa, e con essa la consapevolezza che è solo un’illusione. Che alla fine il Natale non è altro che una domenica all’ennesima potenza. Che l’allegria manifestata compulsivamente dalla gente svanisce una volta scambiato l’ultimo regalo.

Forse però il trucco è proprio questo. Natale, i suoi rituali, le attese e quella felicità provata a tutti i costi perché sì, almeno una volta all’anno bisogna essere felici; Natale con le luci che bruciano la cornea e la frenesia per le strade e i negozi affollati. Natale e le discussioni a tavola che sfiorano la rissa tra parenti. Forse non vanno separati questi due momenti, la preparazione con le sue routine e la disillusione che sistematicamente ne segue. Sono le due facce della stessa medaglia, prendere o lasciare.

Oggi c’è silenzio. Le strade sono deserte. I regali sono stati scambiati, i panettoni aperti, le bottiglie di spumante svuotate e milioni di Gesù bambini, biondi come pargoli svedesi, sono stati infilati nelle loro mangiatoie. L’eco di quell’emozione che torna a galla da lontano è scomparsa, probabilmente riemergerà l’anno prossimo, riportando in vita per un momento la sensazione di tepore e sicurezza di quei rituali, il dolce piacere di quei gesti, di quei profumi, di quelle voci che, ormai, esistono solo nella mia memoria.

Leave a reply:

Your email address will not be published.

Site Footer