Da stamattina le reti sociali pullulano di post sulla parola “diversità”. Non è bella, si dice, è comparativa, e invece io la trovo davvero una bella parola e soprattutto molto utile, se comprendiamo bene il suo significato più profondo. E per questo copio qui quello che ho scritto un anno fa nel mio ultimo libro proprio sull’idea di diversità.
Diversità
Nei confronti dell’idea di diversità ho sempre provato sentimenti ambivalenti, e finalmente riesco a spiegarmi il perché. Fin da ragazzino sono stato fermamente convinto che il mondo fosse un posto incredibilmente vario, ricco di differenze molte delle quali ho sperimentato e sperimento in prima persona. Differenze rispetto a quella che percepivo come un’immensa impalcatura arrugginita che avvolgeva un edificio meraviglioso; rispetto a quella spinta inesorabile al conformismo, al questo si fa e quello non si fa, la spinta all’amore unico, al pensiero unico, al futuro lavorativo unico. Una marea lenta ma inesorabile che giorno dopo giorno mi imponeva di non provare più stupore e meraviglia per la diversità con cui il mondo si presentava ai miei occhi in ogni istante.
Fin da ragazzino ho però percepito come irresistibile anche un’altra spinta, quella che la varietà dell’esperienza umana esercitava su di me, dentro di me, intorno a me. Una sensazione che ricorda quei fili d’erba i quali, a dispetto di ogni tentativo di cementificazione, riescono a crescere agli angoli dei marciapiedi o sui cornicioni dei palazzi; qualcosa di estremamente tenace. Quando crescendo mi sono reso conto che questa varietà, la naturale tendenza alla differenziazione che la vita mostra in modo incontenibile era considerata in alcuni casi una cosa da nascondere e di cui vergognarsi, quando ho capito che le differenze che vedevo nascere in me rappresentavano (incomprensibilmente) solo problemi, ho deciso che forse sarebbe stato più saggio non mostrarle al mondo. Con grande dolore, perché erano parte di me.
È proprio lì che è nata l’ambivalenza del mio sentimento verso l’idea di diversità: da un lato la ho sempre considerata come la cosa più naturale del mondo, siamo tuttǝ diversǝ, le differenze sono quello che rendono il mondo un posto in cui valga la pena vivere e per questo vanno tutelate e rispettate. D’altra parte ho cominciato a soffrire al pensiero che proprio questa varietà, questa idea così complessa e quasi indefinibile, dovesse essere a sua volta infilata in una categoria e, secondo i metodi utilizzati per definire la normalità, suddivisa in tante altre piccole categorie.
Oggi so che questa mia insofferenza verso la tassonomizzazione della diversità nelle sue molteplici espressioni ha a che fare con la convinzione – che fino a poco tempo fa era un’idea senza nome – che la diversità sia intersezionale; non mi è mai piaciuto dover definire la diversità solo in quanto opposta alla normalità, perché utilizzando questo sistema sarà sempre qualcosa di inferiore. Se non siamo in grado di definire la diversità come un concetto autonomo e non necessariamente come contrario di normalità, non riusciremo a liberarla dallo stigma sociale. Altrimenti l’inclusione resterà sempre un processo che parte dalla normalità – percepita come la cosa giusta – e investe una diversità tutto sommato passiva, desiderosa di entrare a far parte del club delle persone sane, normali, di quelle che non vengono additate come difettose o strane. È questa l’idea di diversità che non mi piace, una diversità dipendente dall’idea di una normalità che, paradossalmente, è inesistente in natura.
E allora proverò a dare una definizione di diversità svincolata dal suo opposto.
Un modo per rendere comprensibile questo concetto è leggere la definizione di diversità biologica (o biodiversità) formulata dalla Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite (CBD, art. 2, § 6): «variabilità tra gli organismi viventi di ogni origine compresi, tra l’altro, gli ecosistemi terrestri, marini ed acquatici e i complessi ecologici di cui sono parte; questo comprende la diversità in una stessa specie, tra le specie e quella degli ecosistemi».[1]
Leggendo con attenzione, vediamo che nella definizione stessa di biodiversità adottata dai 150 paesi firmatari della Convenzione, c’è una frase di una semplicità e di una chiarezza estreme: «questo comprende la diversità in una stessa specie», e quindi anche la diversità umana. Tra l’altro, sulla pagina dedicata a questo documento è possibile leggere questa breve spiegazione, che trovo altrettanto interessante:
Firmata da 150 leader di governo al Summit della Terra di Rio del 1992, la Convenzione sulla diversità biologica è dedicata alla promozione dello sviluppo sostenibile. Concepita come uno strumento pratico per tradurre in realtà i principi dell’Agenda 21, la Convenzione riconosce che la diversità biologica non riguarda solo piante, animali e microrganismi e i loro ecosistemi: riguarda le persone e il nostro bisogno di sicurezza alimentare, medicinali, aria fresca e acqua, riparo [casa] e un ambiente pulito e sano in cui vivere.[2]
La diversità biologica riguarda le persone, non è una nicchia in cui tenere nascoste quelle differenze percepite come stranezze che si allontanano dalla perfezione ideale di normalità. La diversità è la base di ogni cosa, è l’essenza stessa della natura, del mondo, dell’umanità. Ecco allora chiarito il significato di questa parola, diversità, ossia varietà. La diversità, spostando il punto di osservazione, è quella condizione che comprende ogni persona senza fare alcuna distinzione, in un’ottica non più categoriale ma intersezionale, perché ciascunǝ di noi è il risultato dell’intersezione di tante unicità. Vista così, la normalità diventa una sotto categoria della più vasta diversità, una categoria ideale, non naturale e dai confini estremamente marcati. Osservata da quest’angolazione, la normalità rappresenta idealmente una minoranza all’interno della vastità della diversità: la fantomatica maggioranza è quindi, paradossalmente, minoranza, e sarebbe ora di rendercene conto.
Questa visione della diversità però non piace ad alcune persone, che in modi più o meno sottili cercano di distorcere la realtà per attribuirle un significato opposto. È tristemente diffusa infatti la convinzione che sostenere la diversità significhi volere l’eliminazione delle differenze. Per quanto contorto e paradossale possa apparire un tale ragionamento, esso viene costantemente diffuso anche da personaggi che hanno acquisito una certa rilevanza mediatica e che stanno portando avanti una campagna per screditare idee egualitarie attraverso semplici cambiamenti semantici. Un esempio riguarda il concetto di uguaglianza, che è alla base dell’idea di diversità, e viene tradotto con conformismo. Si tratta di uno slittamento semantico piuttosto arbitrario che non nasce da un cambiamento nell’uso pratico della parola, ma vuole al contrario forzarne la modifica del significato.
Questa visione sostiene che l’ideale di diversità sia innaturale perché desiderare l’uguaglianza da un punto di vista giuridico, ossia la parità dei diritti e delle opportunità per tutte le persone, equivale a voler negare le differenze, a volerle appiattire[3]. Il trucco da prestigiatore che viene utilizzato in casi come questo è proprio la forzatura, del cambio di significato di una parola chiave di un concetto.
Uguaglianza è un ideale etico (è essa stessa un concetto) secondo il quale tutte le persone che costituiscono una comunità devono avere gli stessi diritti e le stesse opportunità, devono insomma essere considerate allo stesso modo in relazione a determinati diritti o valori. In questo senso, il concetto di uguaglianza diviene un pilastro su cui poggia l’idea di diversità, in quanto il riconoscimento della naturale varietà con cui si esprime la nostra specie ci metterebbe automaticamente davanti alla necessità di applicare il principio di uguaglianza: pari diritti e opportunità in partenza per tuttǝ. Ma se noi traduciamo la parola uguaglianza con l’aggettivo “uguale”, ecco che avviene la magia. Da termine che esprime la parità dei diritti per tutte le differenti persone che compongono una società, a parola che suggerisce similitudine, conformità, eliminazione delle differenze.
Ecco perché le parole sono così importanti e bisogna fare attenzione a come vengono utilizzate. Un giochetto semantico apparentemente insignificante portato in giro alle conferenze, ripetuto in libri e video, può spingere a credere che una costruzione totalmente antidemocratica come la negazione della parità dei diritti e delle opportunità, sia invece il modo per salvare la società da quei cattivoni che stanno cercando di eliminare le sacrosante differenze tra persone attraverso l’ideale della diversità.
Bisogna vigilare attentamente, porsi domande, informarsi; è necessario comprendere il significato delle parole che utilizziamo perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, esse contribuiscono a formare la realtà nella quale viviamo tanto nel bene come nel male. Rendiamoci conto di quanto sia facile modificare il significato di una parola e con essa una parte della realtà che rappresenta.
La diversità, quando intesa come naturale varietà dell’esperienza umana, è in realtà un vaccino che, inoculato in una cultura, la protegge dal conformismo e dalle ideologie repressive, dalla censura e dal pensiero unico.
NOTE:
[1], [2]: https://www.cbd.int/convention/articles/?a=cbd-02
[3]: Un chiarissimo esempio di questo tipo di dinamiche è osservabile in questo frammento in cui lo psicologo canadese Jordan Peterson esegue un triplo carpiato e, con una supercazzola mirabolante, riesce a far passare come corretta l’idea che concedere parità di diritti e opportunità alle minoranze equivalga a eliminare le differenze tra persone. https://www.youtube.com/watch?v=UrmeW3W35r8
Tratto da: In altre parole, dizionario minimo di diversità, ed. effequ