Il modello medico e quello sociale dell’autismo

Non è nuova la contrapposizione tra il modello medico e quello sociale della disabilità. Personalmente credo che il concetto stesso di disabilità sia legato al modello medico mentre dal punto di vista sociale essa si trasformi nell’incapacità della società di gestire le differenze, assumendo un significato completamente diverso e andando a modificare il linguaggio e la cultura verso una maggiore comprensione e inclusione.

Chi mi legge da un po’ avrà ormai capito che personalmente condivido e difendo l’importanza della visione medica dell’autismo, della ricerca e del un rigore scientifico nel verificare le informazioni che si divulgano, ma credo sia doveroso che tale visione venga utilizzata esclusivamente nel suo particolare ambito di applicazione, che è quello clinico. Ritengo sia fondamentale sostenere un cambiamento culturale che faccia allontanare i settori non medici della società da questa visione specialistica che crea preconcetti ed esclusione assolvendo allo stesso tempo la società dalle proprie responsabilità nella creazione della disabilità.

Mi spiego meglio. La visione prettamente medica continua a definire l’autismo (e tutte le altre condizioni neurologiche e psichiatriche) in base a quelli che vede come deficit, cioè difetti, (basta leggere i criteri diagnostici per l’autismo del DSM-5) e che sono tali perché a questa condizione viene applicato lo stesso approccio che si utilizzerebbe nei confronti di un’appendicite o di un’influenza: ogni interferenza con il corretto funzionamento dell’organismo va curata, eliminata, per riportare il corpo a funzionare normalmente.

Peccato che questo possa valere per una malattia, la cui definizione secondo il vocabolario Treccani è una “condizione abnorme e insolita di un organismo vivente, animale o vegetale, caratterizzata da disturbi funzionali, da alterazioni o lesioni […] si intende per malattia un’alterazione transitoria e reversibile”.

Ma l’autismo non è reversibile (e questo non lo dico io), è una condizione del neurosviluppo presente dalla nascita, una differente organizzazione di alcune aree del sistema nervoso che ha come conseguenza differenze nell’area sociale, sensoriale, motoria, della comunicazione. Inoltre, per arrivare a una diagnosi l’unico sistema è l’osservazione del comportamento (non esistono ancora marcatori biologici affidabili), e sappiamo tutti molto bene che la “normalità” di un comportamento non è un parametro oggettivo ma, al contrario, estremamente soggettivo e legato alla cultura del luogo e del periodo storico.

La visione medica continua a guidare l’approccio della cultura dominante (quella della maggioranza “normale” per capirci) all’autismo anche fuori dall’ambito della ricerca medica e della diagnostica. La stragrande maggioranza delle persone, inclusi molti genitori (non tutti, per fortuna), terapisti, insegnanti, psicologi, sono convinti che l’autismo consista in una serie di deficit e comportamenti maladattivi (o maladattativi, ma è orribile lo stesso) che vadano riportati alla normalità con ogni mezzo.

Questa visione presuppone che esista una “normalità” oggettiva, cioè che dietro l’autismo ci sia una persona “normale”, senza l’autismo. A quelli che ancora pensano non sia urgente insistere sulla necessità di utilizzare un linguaggio diverso per cambiare il modo in cui viene percepito l’autismo, faccio presente che questa visione è coerente con il linguaggio definito “people first” e cioè quel modo di definire la persona “con” una caratteristica o disabilità: persona “con” autismo, come se questa caratteristica potesse essere tolta dalla persona. Eppure non sentiamo mai dire persona con omosessualità, persona con mancinismo, persona con biondismo, persona con occhioverdismo.

Chiunque abbia un atteggiamento di questo tipo nei confronti dell’autismo penserà che l’autistico vada cambiato, che in qualche modo non abbia diritto di far parte della società fino a che non ne accetterà le regole con ogni sforzo, piegando e a volte andando contro la propria stessa natura, anche se questo dovesse significare un impegno enorme e un dolore incredibile.

Spesso mi è stato detto che le mie sono belle parole ma nella pratica un autistico deve confrontarsi con la società che ci ritroviamo e che comunque gli autistici vanno educati, e a quel punto io comincio a dubitare delle capacità di chi ho di fronte prima di tutto perché, da autistico io stesso, so fin troppo bene che con questa società devo farci i conti ogni giorno. Inoltre trovo che se nessuno di noi cominciasse a spingere affinché le cose cambino, la società rimarrebbe sempre la stessa, immobile, incapace di accogliere ogni i suo membro.

Per quanto riguarda l’educazione poi, è ovvio che gli autistici vadano educati come qualsiasi altro individuo, ma c’è un problema etico alla base. C’è infatti una differenza nemmeno tanto sottile tra l’educare qualcuno e il costringerlo a essere altro rispetto a chi sente di essere, e questa differenza – oltre che nei metodi – sta proprio nelle intenzioni. Se non c’è rispetto per le differenze, ma queste vengono viste come deficit, come errori, difetti, nessun intervento sarà educativo ma coercitivo.

Quando la visione che la maggioranza ha di un gruppo socioculturale come quello degli autistici è questa, le esigenze, le aspirazioni e anche i legittimi desideri dei membri di questa minoranza non vengono presi seriamente in considerazione in quanto tale minoranza non è nemmeno considerata come cultura a sé stante. Vedere determinate caratteristiche come differenze e non come difetti cambia completamente l’atteggiamento di un gruppo sociale nei confronti dell’altro, conferisce alla minoranza uno status paritario a prescindere dalla questione puramente numerica rendendo possibile un dialogo onesto, uno scambio culturale in cui entrambi i gruppi cerchino di andare l’uno verso l’altro, l’uno nel rispetto dell’altro.

Inoltre, il fatto stesso che delle persone vengano escluse sulla base di una loro caratteristica o necessità solo perché giudicate differenti dalla maggioranza, contribuisce a creare in loro un sentimento di inferiorità, disperazione, incapacità; sicuramente la percezione di essere difettose e sole, e saranno quindi disposte a rinunciare alla loro natura pur di diminuire quella sensazione e potersi sentire parte di quella società che, fino a pochi minuti prima, le escludeva marchiandole come inferiori.

L’inclusione non è un concetto astratto ma è una pratica necessaria all’evoluzione e alla sopravvivenza di qualsiasi società e ha conseguenze positive sul benessere di ogni suo membro. Nessuna società potrà mai dirsi civile fino a che non rispetterà tutte le differenze al suo interno, fino a che non guarderà agli altri gruppi culturali non come rivali da schiacciare ma come pari, a prescindere dalla propria entità numerica. Non ci sarà reale benessere per gli autistici e per le loro famiglie fino a che la cultura della maggioranza non comprenderà che le differenze non significano inferiorità e che la superiorità morale che tanto dà per scontata non esiste oggettivamente ma è uno status fittizio dato da una semplice superiorità numerica.


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