Postdemocazia e libertà

foto della statua della libertà

 

Forse è il caso che cominciamo a preoccuparci sul serio di cosa sta accadendo nel paese che in molti ammiriamo, a cui guardiamo da decenni come modello di democrazia e libertà per il mondo intero.

A più o meno 120 giorni dall’inizio della vile invasione russa dell’Ucraina, il giorno del compleanno di Jennifer Lopez – che ha presentato al pubblico suǝ figliǝ gender fluid illudendoci di vivere una società aperta alla convivenza delle differenze – nel mese in cui si celebra il pride, venerdì 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha ribaltato la sentenza Roe v. Wade revocando il diritto costituzionale all’aborto.

Tra circa un mese probabilmente in 13 stati sarà vietato abortire, ma a quanto pare questo divieto potrebbe estendersi a ben 26 dei 50 stati che compongono il paese che, ripeto, abbiamo considerato un modello di democrazia per tutto l’occidente. Non la Russia di Putin o l’Ungheria di Orban.

Questa sentenza deve farci riflettere per tanti motivi, ma ce ne sono alcuni che vale la pena osservare con maggiore attenzione. Il primo ovviamente ha a che fare con il concetto di “diritto”, con questo costrutto inesistente in natura, risultato della nostra evoluzione culturale, dello sviluppo di un senso di giustizia anch’esso artificiale e quindi estremamente fragile, anche perché soggetto all’influenza di mutamenti culturali e sociali.

Ieri la sentenza della Corte Suprema ha cancellato in un attimo un diritto che era stato conquistato in anni e anni di lotte, un diritto che non solo dava alle donne la facoltà di decidere del proprio corpo ma colmava anche, seppure in modo incompleto e insufficiente, lo squilibrio di potere più esteso tra uomini e donne, insito in una cultura ancora fortemente androcentrica (per dirla con Vera Gheno) come la nostra.

Non possiamo assolutamente negare che se abbiamo ottenuto tante libertà, se oggi godiamo di determinati diritti è anche grazie all’influenza degli Stati Uniti, alla forza della cultura americana di modellare i nostri ideali, alla potenza economica e politica delle élite statunitensi di “indirizzare” certi cambiamenti. Ma tutto questo ha ovviamente un lato oscuro: se la cultura di riferimento si sposta verso la negazione di quegli stessi diritti, proprio grazie alla sua influenza può trascinare con sé i propri seguaci.

Come dicevo prima, bisogna fare molta attenzione ai diritti perché tendiamo a darli per scontati, ne godiamo senza nemmeno accorgercene. Il percorso che ci ha portato a creare e affinare concetti come quello di convivenza, la strada che ci ha fatto prima concepire l’idea stessa che possano esistere i diritti umani e civili, e poi lottare affinché quell’idea diventasse realtà, è stata ed è ancora oggi una strada lunga e molto tortuosa.

Conquistare un diritto è come scalare una montagna. Spesso la montagna è impervia, durante il cammino possiamo perdere compagne e compagni di scalata. Ma a volte si raggiunge la vetta, e quella diventa una conquista per tutto un popolo, o in alcuni casi per l’umanità intera. Però c’è un problema: bisogna difenderla, la vetta conquistata, e bisogna che a difenderla siamo in tanti. Perché dopo la scalata basta una spintarella a far precipitare di sotto chi rimaneva a guardia di quella fragile conquista, e la vetta torna a essere terra di nessuno.

Ieri, la Corte Suprema di un paese che abbiamo sempre considerato a noi vicino per ideali e cultura ha in un soffio eliminato una conquista storica. E la cosa peggiore è che quest’aria non tira solo da quelle parti. Gli ultraconservatori, che ieri festeggiavano una vittoria contro la libertà e che intendono imporre con la forza la loro visione del mondo anche a chi non la condivide, sono più vicini a noi di quanto non vogliamo vedere.

C’è inoltre un passaggio, in quella sentenza, tra le motivazioni del giudice conservatore Clarence Thomas, nel quale è espressa chiaramente la necessità di abbattere altre sentenze storiche, in particolare Griswold, Lawrence, e Obergefell, che hanno impedito ai singoli stati di vietare la contraccezione, le relazioni sessuali e il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Tutto questo mentre a marzo, il governatore repubblicano ultraconservatore della Florida Ron DeSantis, ha fatto approvare il disegno di legge 1557, ribattezzato “don’t say gay” (non dire gay), in cui si sostiene che “L’istruzione in aula da parte del personale scolastico o di terzi sull’orientamento sessuale o l’identità di genere non può avvenire nella scuola materna e fino al terzo anno [terza elementare in Italia] o in modo non adeguato all’età o allo sviluppo per gli studenti in conformità con gli standard statali”.

E non importa che la discriminazione per questioni di orientamento sessuale e identità di genere tra i giovani sia causa documentata di sofferenza e disagio perché, secondo l’ideologia alla base di certe decisioni, educare alla convivenza e alla comprensione della diversità sarebbe solo un tentativo di deviare le giovani menti da quello che è anacronisticamente considerato lo stato naturale delle cose, ossia l’eterosessualità e il binarismo di genere.

Fa paura, quello che sta accadendo, perché fino a ora abbiamo associato simili derive oscurantiste a Paesi come la Russia, la Polonia, l’Ungheria, l’Iran o gli Emirati Arabi o la Cina, eppure i segnali che questa ondata nera e soffocante sta arrivando anche qui ci sono tutti e sono visibili da tempo. Come quando, nel 2014, il governo di Mariano Rajoy propose in Spagna una legge che, se approvata, avrebbe praticamente vietato l’aborto in ogni circostanza. Legge che non passò in quel momento a causa delle proteste ma soprattutto per il tracollo del partito di governo alle elezioni europee.

Eppure mi domando cosa accadrebbe oggi, con i partiti di ultradestra (come Vox qui in Spagna) che prendono sempre più voti, appoggiati da una popolazione che sembra aver perso la propria memoria storica per lanciarsi in una spirale masochistica da cui usciremo tutte e tutti perdenti. Oggi, forse, una legge come quella del 2014 in Spagna verrebbe approvata, seppure tra le proteste, anche perché negli ultimi anni i meccanismi per reprimere il dissenso politico e ridurre il diritto di manifestare sono stati affinati in modo preoccupante.

Dobbiamo fare attenzione, dobbiamo vigilare tutte e tutti affinché nessuno possa erodere quei diritti conquistati con la lotta e anche con la vita da tante persone prima di noi. Dobbiamo fare attenzione e non dare mai nulla per scontato perché è un attimo, una spintarella, e ci ritroveremo senza più protezione per le lavoratrici e i lavoratori, senza poter decidere dei nostri corpi; è un attimo e non potremo più amare secondo le nostre inclinazioni, o poter dire quello che pensiamo. O lottare per riconquistare diritti perduti.

È un compito che spetta a ciascuna e ciascuno di noi, non possiamo lasciare la salvaguardia di un bene prezioso come i nostri diritti a una classe politica che mostra senza pudore il proprio interesse esclusivo per il potere e il denaro.

Abbiamo una guerra alle porte dell’Europa da ormai tre mesi, una guerra che sta provocando morti in Ucraina e che ne causerà indirettamente anche oltre i confini ucraini quando, tra non molto, le conseguenze economiche e alimentari non saranno più gestibili. Nella stessa Unione Europea ci sono paesi come la Polonia, che ha dichiarato con orgoglio di avere istituito zone libere dall’ideologia LGBTQIA+, che ha varato pochi mesi fa una legge che di fatto vieta quasi completamente l’aborto, che ha prodotto una riforma della giustizia che riduce l’indipendenza dei giudici e la sottomette al potere politico. Oppure l’Ungheria, trasformata da Orban in uno stato sempre più illiberale in cui razzismo e xenofobia sono stati praticamente istituzionalizzati.

Ho la strana e spiacevole sensazione che continuiamo a sottovalutare certi segnali estremamente chiari e allarmanti. Ho davvero paura che un bel giorno ci sveglieremo sotto governi autoritari che superficialmente e irresponsabilmente avremo eletto proprio noi. Siamo forse davvero ormai arrivati a quella che il sociologo britannico Colin Crouch ha definito “postdemocrazia”, un regime solo in teoria ancora democratico in cui “Anche se le elezioni continuano a svolgersi […] il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici.”[1]

Quello che è accaduto negli Stati Uniti d’America deve spaventarci, e anche tanto. Perché non stiamo parlando di un qualsiasi paese illiberale che fino a ieri vedevamo come lontano da noi. Quella che è iniziata come una lenta e silenziosa erosione dei diritti di cittadine e cittadini è diventata una guerra all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità. È l’uso perverso del concetto di libertà individuale, utilizzato come scudo per proteggere idee liberticide e violente, facendo apparire chi lotta per la parità e l’uguaglianza dei diritti come una minaccia, mentre chi impone le proprie idee e il proprio credo anche a chi non li condivide, diventa paradossalmente il salvatore della libertà.

NOTA:
[1] Crouch, C. (2012). Postdemocrazia (C. Paternò, Trad.). Editori Laterza.

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