Normalità, costrutti sociali e significati

tante silhouettes con sullo sfondo la scritta "normality" e un enorme punto interrogativo disegnato sopra

Nel 1846 l’astronomo belga Adolphe Quetelet calcolò la circonferenza media del petto di 5738 soldati scozzesi, in uno dei primi e più noti esperimenti in cui sia stata applicata la statistica alla misurazione dell’essere umano[1]

In quel periodo, la normalità ancora non esisteva. Quetelet però aveva già definito in alcuni scritti precedenti l’ideale di “uomo medio”, un modello inesistente in natura che raccoglieva le caratteristiche riscontrate con maggiore frequenza in una data popolazione oggetto di studio.

La normalità così come la conosciamo oggi non esisteva nemmeno quando, circa una quarantina d’anni dopo, Francis Galton (cugino di Charles Darwin) unì il concetto di uomo medio all’idea che fosse possibile migliorare la specie umana selezionando gli individui dai tratti maggiormente desiderabii, dando così vita all’eugenetica[2].

Ma la discriminazione già esisteva e probabilmente è sempre esistita, a prescindere dalla creazione dell’ideale di normalità. A meno che non vogliamo credere al mito del buon selvaggio tanto caro a Rousseau, a quell’ideale stato di natura corrotto poi dalla civilizzazione, in cui l’umanità viveva felice e pacifica.

La normalità non ha creato le disuguaglianze, l’esclusione sociale o la discriminazione, ma ha stabilito dei parametri per codificarle. Insieme alla produzione di massa, alla burocratizzazione degli stati e quindi alla standardizzazione della società, viene sistematizzata l’esclusione in base a determinate caratteristiche considerate “anormali” e quindi, secondo questa semplificazione, indesiderabili.

La normalità è servita per dare delle basi scientifiche, almeno secondo quelle che erano le conoscenze scientifiche dell’epoca, a un sentimento ancestrale e molto probabilmente presente da sempre nell’essere umano: l’esclusione del diverso.

Il problema è che, sebbene immaginiamo che sia qualcosa di innato, non tutte le culture escludevano allo stesso modo coloro che presentavano differenze rispetto alla maggioranza, e soprattutto non tutte le caratteristiche suscitavano la stessa reazione. Pensiamo ad esempio a come in molte città-stato dell’antica Grecia l’omosessualità fosse un comportamento socialmente accettato mentre, allo stesso tempo, era diffusa la discriminazione in base alle origini e alla provenienza, quello che oggi chiamiamo razzismo[3].

Con la creazione della normalità viene quindi istituita una categoria in cui racchiudere tutto ciò che è auspicabile. Questa categoria è stata posta a modello e monito, ad argine e a confine di ciò che una società, in un determinato luogo e momento storico, considera accettabile in determinati ambiti del proprio funzionamento.

Abbiamo così stabilito parametri per definire quali comportamenti considerare normali e quali no, affidando alla medicina e alla forza pubblica il compito di riportare nei limiti della “norma” quei comportamenti definiti anormali. Abbiamo normalizzato la salute, differenziando tra corpi, organi e tessuti sani e malati, e stabilendo valori medi di funzionamento.

Alcuni di quei corpi e menti esclusi dalla categoria della normalità in quanto non conformi agli standard (standard ricavati da campioni quasi mai rappresentativi dell’intera popolazione) li abbiamo poi catalogati come non abili al lavoro, non produttivi in un ambiente lavorativo altamente standardizzato, di fatto escludendoli arbitrariamente dalla partecipazione alla vita sociale.

Il nostro pensiero, da oltre un secolo a questa parte, si è sviluppato intorno a questa idea pervasiva, comoda e forse utile sotto certi aspetti, l’illusione che un modello ideale, l’uomo medio, esista nella realtà.

Ma il fatto che l’uomo e la donna medi non esistano in natura non rende la normalità meno concreta. La normalità esiste, altrimenti non staremmo a ripeterci costantemente quanto sia importante valorizzare la diversità. La normalità esiste e si evolve. Certo, è un concetto astratto, un’invenzione umana, è una categoria artificiale, ma questo non la rende meno potente e reale. D’altra parte anche i diritti sono invenzioni umane. I diritti umani, i diritti civili, sono costrutti sociali che non esistono in natura, eppure noi li pensiamo e li viviamo come reali, lottiamo per conquistarli e soffriamo quando ne siamo privati.

Probabilmente, invece di affermare che la normalità non esiste dovremmo ammetterne l’esistenza come costrutto sociale, sottolineando così la sua artificialità. Soprattutto perché l’applicazione della statistica alla misurazione dei fenomeni umani, e la conseguente creazione della normalità, hanno permesso alla scienza di fare passi avanti altrimenti impensabili, e finché non troveremo una valida alternativa, non credo potremo farne a meno.

E allora, come possiamo convivere con la normalità e al stesso tempo non farci da essa schiacciare, non lasciarci soffocare dai suoi rigidi confini?

Una possibilità è quella di lavorare sui significati. Che significato diamo al fatto che una persona si muova utilizzando una carrozzina o comunichi attraverso la lingua dei segni o un’applicazione sul tablet? Che significato diamo al fatto che una persona si identifichi con un genere differente da quello che le è stato attribuito quando è nata? Oppure che una persona interpreti il linguaggio in modo letterale, o che mostri una grande aderenza alle routine?

È qui che risiede l’importanza del linguaggio, ed è anche per questo che non è un’entità astratta. Il nome che diamo alle cose e alle persone che non rientrano in determinati canoni, gli aggettivi che usiamo per descriverle, ci aiutano a stabilirne anche il valore. Se la nostra narrazione valuta negativamente tutto ciò che non è conforme a una determinata norma, allora questa diventa una gabbia dalla quale sarà impossibile uscire.

Proviamo a guardare alla normalità per ciò che è: un costrutto sociale, una categoria artificiale creata per facilitare la comprensione della realtà. E teniamo sempre in mente che questa categoria è una semplificazione estrema, e che per sua natura non riuscirà mai a cogliere l’infinita variabilità di tratti e caratteristiche espressa dalla naturale diversità umana e biologica. Sta anche a ciascuna e ciascuno di noi spostare il punto di vista, risignificare la norma come strumento descrittivo e limitato, toglierle potere prescrittivo e investire sul valore delle differenze in quanto espressione della diversità umana.

NOTE:
[1] Quêtelet, L. A. J. (1846). Lettres à S.A.R. le duc régnant de Saxe-Coburg et Gotha, sur la théorie des probabilités, appliquée aux sciences morales et politiques. Bruxelles: M. Hayes Imprimeur de l’Académie Royale des Sciences, des Lettres et des Beaux-Arts de Belgique.
[2] Galton, F. (1883). Inquiries into human faculty and its development. London: Macmillan.
[3] Isaac, B. (2006). The Invention of Racism in Classical Antiquity. Princeton University Press.

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