Procrastinare è una parola che deriva dal latino ed è composta dal prefisso pro-, che in questo caso significa “davanti” inteso come successione temporale, e -crastinus, ossia “di domani”, e che è l’aggettivo di “cras” (che invece significa “domani”). Procrastinare quindi significa spostare qualcosa in avanti nel tempo, rimandare.
Proviamo per un attimo a spogliare questo verbo da qualsiasi pregiudizio, sospendiamo ogni giudizio morale e liberiamolo da quell’alone di biasimo scuro e appiccicoso di cui la società l’ha avvolto, in una parola: neutralizziamolo.
Adesso che – sicuramente con qualche difficoltà – “procrastinare” ha assunto un aspetto e un sapore neutri, ora che non ci ispira più alcun sentimento di rimorso, che non ci istiga al giudizio sommario e alla condanna dell’altro, possiamo fare un altro piccolo esperimento: proviamo a comprendere in che contesto nasce il pregiudizio, lo stigma sociale che accompagna l’idea che rimandare, posticipare, differire, posporre, sia necessariamente una pratica negativa.
Procrastinare è infatti visto come un “pernicioso fallimento nell’autoregolazione”[1], e in quanto tale è condannato come peccato mortale soprattutto dalla sempre più invadente e pervasiva ideologia del “miglioramento personale”.
Già Cicerone definiva “odiosa” la tendenza a rimandare gli impegni, e la letteratura scientifica oggi – nonostante i tentativi di evitare giudizi così apertamente stigmatizzanti – insiste nel sostenere esclusivamente i presunti effetti negativi della procrastinazione, in particolare gli elevati livelli di stress e in generale le peggiori condizioni di vita che causerebbe[2]. E allora, se ce lo conferma anche la scienza, non c’è dubbio: le procrastinatrici e i procrastinatori sono davvero persone brutte e cattive, e anche un po’ masochiste.
Ma forse c’è un altro modo di guardare a questa caratteristica umana che, alla fin fine, seppure combattuta con le armi della forza di volontà e dei calendari multicolori, è più diffusa di quanto si voglia credere.
Proviamo quindi a osservare la tendenza a rimandare da punti di vista differenti, esercizio che andrebbe applicato a qualsiasi concetto susciti in noi una condanna immediata, e che può portare a scoperte sorprendenti sul nostro modo di giudicare noi stessi e le altre persone.
La prima domanda che mi viene in mente è: ma sono davvero sicuro che procrastinare porti con sé esclusivamente conseguenze negative? Non è che invece gli effetti di questa pratica dipendono da situazione a situazione e che, come in molti altri casi, generalizzare è la solita scorciatoia che impigrisce il giudizio e ci toglie possibilità di scelta?
In un interessante articolo le autrici “hanno differenziato due tipi di procrastinatori: procrastinatori passivi rispetto a procrastinatori attivi. I procrastinatori passivi sono procrastinatori nel senso tradizionale. Sono paralizzati dalla loro indecisione ad agire e non riescono a completare le attività in tempo. Al contrario, i procrastinatori attivi sono un tipo “positivo” di procrastinatore. Preferiscono lavorare sotto pressione e prendono decisioni deliberate per procrastinare.”[3]
Ferma restando la mia convinzione che nemmeno la pigrizia vera e propria sia da condannare, in questo momento vorrei prendere in considerazione differenti scenari in cui la procrastinazione non è ciò che appare. Come abbiamo appena letto nell’articolo citato, ci sono persone che lavorano meglio sotto pressione e allora rimandano determinati compiti il più possibile. In questo modo usufruiscono di quella “botta” di adrenalina che necessitano per migliorare la loro performance. Queste persone rendono molto di meno se non sentono addosso la tensione della scadenza imminente, e quindi costringerle a pianificare per evitare tale tensione equivale a ridurne il rendimento. Ovviamente, anche loro vengono stigmatizzate e tartassate fin da bambine per questa tendenza a “ridursi all’ultimo momento”, e questo a prescindere dai risultati raggiunti.
Poi ci sono quelli che sembrano procrastinare ma in realtà stanno preparando, pianificando, studiando prima di attuare. Non è difficile che questo gruppo di procrastinatori e il precedente si sovrappongano e anche in quel caso, essendo un approccio assai personale, per chi lo utilizza funziona egregiamente ma dalla società queste persone vengono comunque bollate come pigre, svogliate, incapaci di gestire il proprio tempo.
Immaginate adesso un’adolescente che possiede una modalità di studio come quelle appena descritte e deve preparare un esame. La famiglia e le insegnanti la tartasseranno, le imporranno un modello di lavoro che non si addice alle sue caratteristiche ma che si troverà costretta ad adottare, e probabilmente diventerà un’adulta che non riuscirà a mostrare appieno le proprie capacità perché piegata a funzionare in modo contrario a quello che le sue caratteristiche richiederebbero. È quindi possibile che percepirà il lavoro come spiacevole e frustrante, probabilmente avrà una carriera lavorativa incostante e poco soddisfacente anche dal punto di vista economico. Tutto questo perché la nostra società tende a giudicare ogni minima differenza sulla base di pregiudizi culturalmente radicati e spesso profondamente discriminatori.
Tra i vari motivi per cui possiamo procrastinare però ce ne sono però alcuni che effettivamente hanno a che fare con la tendenza a evitare determinati compiti o situazioni. È importante cercare di comprendere quali possano essere le ragioni di questo evitamento per spazzare via lo stigma sociale che investe anche chi mette in atto tale strategia.
Telefonare per chiedere un appuntamento o per ricevere informazioni, o anche doversi recare di persona in uno studio medico o legale, in un ufficio pubblico o a volte un negozio, può generare in alcune persone stati di ansia estremamente intensa che facilmente portano all’evitamento di quel contesto. Sono davvero tante le persone che, per evitare spesso inconsciamente di dover interagire con un call center o con la segreteria di uno studio dentistico, o di dover spiegare le proprie richieste in un negozio davanti alla clientela, rimandano, procrastinano quella telefonata, la visita dal medico, il cambio di residenza al comune. Eppure quella di evitare le situazioni percepite come spiacevoli è una dinamica che accomuna l’umanità intera e sulla quale abbiamo basato anche la nostra sopravvivenza e il nostro sviluppo culturale e tecnologico, quindi c’è poco da condannare.
Ovviamente la folta schiera di chi pensa che se non riesci a fare una cosa utilizzando la modalità standard allora sei difettosa e vai riparata, opterà per terapie, corsi, libri e metodi per superare la propria “timidezza” – che timidezza non è – come se chiunque manifesti una difficoltà vada normalizzato.
Ma ci sono altre soluzioni che possono permettere di non dover subire l’ansia paralizzante, la tachicardia e quella raffica di pensieri che pietrifica alcuni e alcune di noi ogni qual volta bisogna fare una chiamata a un ufficio o chiedere informazioni a un commesso. Una di queste soluzioni ce la fornisce la tecnologia: le email, i messaggi su whatsapp, le app per il cellulare, una serie di mezzi che possono facilitare la ricerca di informazioni, la prenotazione di appuntamenti e anche il dialogo, senza dover necessariamente soffrire le pene dell’inferno ogni volta, la spesa online.
E quando questo non è possibile? Si può chiedere aiuto a un’amica, a un amico, a un parente, alla persona con cui si vive. E se proprio è indispensabile farlo di persona, allora bisognerà armarsi di tanta forza e affrontare la situazione, prevedendo che probabilmente ne usciremo con un bel carico di stress. La questione però non è tanto se bisogna o no a volte costringersi a fare cose che ci fanno star male, perché quello è inevitabile e va riconosciuto, sarebbe superficiale negarlo; ma se per alcune persone determinate situazioni rappresentano un momento di sofferenza, l’uso di queste alternative può ridurre un bel po’ il malessere ed evitare quei famosi ritardi per i quali altrimenti scatta la condanna.
Spesso il problema risiede proprio nella scarsa volontà della società di concedere alternative, che si traduce nel porre ostacoli all’uso di modalità che non siano considerate standard. Che la nostra non sia una società particolarmente inclusiva lo sappiamo, e la superficialità con la quale viene condannata la procrastinazione senza prima aver indagato le ragioni di tale comportamento, l’incapacità di prevedere forme di organizzazione del lavoro o di interazione sociale che si allontanino dall’ordinario, ne è la dimostrazione lampante.
E allora facciamoci un favore, evitiamo di stigmatizzare chi ha un approccio differente alla gestione del proprio tempo e dello studio o del lavoro, proviamo invece ad aiutarci per trovare soluzioni condivise, recuperiamo il senso solidale di una società sempre più individualista e stupidamente intransigente.
NOTE:
[1] Steel, P. (2007). The nature of procrastination: a meta-analytic and theoretical review of quintessential self-regulatory failure. Psychological bulletin, 133(1), 65–94. https://doi.org/10.1037/0033-2909.133.1.65
[2] Tice, D. M., & Baumeister, R. F. (1997). Longitudinal Study of Procrastination, Performance, Stress, and Health: The Costs and Benefits of Dawdling. Psychological Science, 8(6), 454–458. https://doi.org/10.1111/j.1467-9280.1997.tb00460.x
[3] Chun Chu, A. H., & Choi, J. N. (2005). Rethinking Procrastination: Positive Effects of “Active” Procrastination Behavior on Attitudes and Performance. The Journal of Social Psychology, 145(3), 245–264. doi:10.3200/socp.145.3.245-264