La “tirannia” dell’inclusività e altre amenità

Il disegno di una persona che legge un quotidiano

 

Ieri ho letto su un quotidiano l’ennesimo articolo contro quello che viene definito linguaggio inclusivo e che, ormai al pari del fantomatico politicamente corretto, viene evocato come il male assoluto da chi non ne condivide gli intenti pur essendo incapace di argomentare le proprie idee. Non condivido il link all’articolo per non dare a certi discorsi privi di argomenti ulteriore diffusione, e anche perché è solo l’ennesima di una lunga serie di opinioni che, nella loro superficiale banalità, si assomigliano tutte. (Se proprio volete leggerlo, basterà digitare tra virgolette su Google il titolo velatamente sarcastico: L’ “Inclusività” tiranneggia il Lingotto a colpi di asterisco)

Il fatto che una persona possa permettersi il lusso di reputare come tiranniche “dichiarazioni di coming out ossessivo compulsivo” oppure “sindrome dell’Inclusione” la necessità espressa con sempre maggiore forza da tante persone di un linguaggio che ne rispetti le caratteristiche e che ne riconosca l’esistenza nella società, è però dovuto al caso.

È per puro caso che alcune persone rientrano in quella che statisticamente consideriamo maggioranza.

Ed è un caso che, rientrando in questa artificiale divisione della specie umana in categorie, non debbano sentirsi offese, derise, insultate o non siano rese invisibili da una lingua che non consente loro il pieno diritto di autorappresentanza, una lingua che in alcuni casi non ne prevede nemmeno l’esistenza.

È un caso che coloro che sminuiscono la sacrosanta necessità di una parte della popolazione di essere rappresentata dignitosamente nel mondo, possano burlarsi di chi invece questo diritto lo vede calpestato ogni giorno.

Essere nate in una famiglia con specifiche risorse economiche, avere un corpo o una mente considerati “abili” dalla società o un orientamento sessuale reputato “normale”, riconoscersi nel genere assegnato loro quando sono nate, fa di queste persone delle privilegiate.

La superficialità con cui spesso le persone privilegiate non si sforzano nemmeno di argomentare le loro posizioni, il benaltrismo, l’incapacità di mettersi nei panni di chi si scontra quotidianamente con una società che non riconosce pari dignità a chi non è conforme a determinati standard, il disprezzo dei sentimenti e delle richieste di chi non è uguale a loro, sono una chiara manifestazione di quanto il privilegio di sentirsi “normale” sia vissuto inconsapevolmente, ma anche di quanto il timore di perdere il potere che da esso deriva si manifesti con forza quando tale privilegio viene messo in evidenza.

Perché alla fine si tratta anche di questo, della paura di perdere potere su chi consideriamo inferiore, del timore irrazionale che estendere diritti ad altre persone voglia dire perderne di propri. E allora davanti alla paura si insulta, si sbeffeggia, si minimizzano le difficoltà che tante persone sperimentano proprio a causa dell’incapacità di metterci tutte e tutti sullo stesso piano, di rinunciare a quel potere che esercitiamo su chiunque riteniamo differente difendendo con le unghie il controllo sul linguaggio e opponendoci a qualsiasi forma di sperimentazione linguistica.

È la sensazione di superiorità che nasce dal trovarsi in una posizione privilegiata a trasformare dei semplici dati statistici, come la distribuzione di specifiche caratteristiche nella popolazione, in giudizio di valore.

Forse faremmo bene a riflettere su quanto i privilegi di cui godiamo a discapito di altre persone siano frutto del puro e semplice caso. Forse dovremmo riconoscere che questi privilegi non sono meritati. E che batterci per una società più equa, una società che riesca a offrire a ogni persona pari opportunità, pari dignità di esistere attraverso una redistribuzione del potere che passi anche per il linguaggio, sia sempre più un dovere per chi crede nel rispetto e nella convivenza delle differenze come fonte di arricchimento personale e collettivo.

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