Il buon giorno si vede dal mattino

Copertina del libro "di pari passo. il lavoro oltre l'idea di inclusione. di Fabrizio Acanfora, edizioni Luiss University Press

 

Avete mai provato a cercare un impiego attraverso i siti di annunci specializzati o sulle reti sociali dedicate al mondo del lavoro? Io sì, e in moltissimi casi ho scartato annunci di occupazioni, anche potenzialmente interessanti, perché scritti e strutturati in modo incomprensibile. Almeno per una persona autistica, o per una persona dislessica.

Il modo in cui l’azienda si presenta all’esterno è spesso considerato una questione più di immagine che una reale necessità. Lo scopo di un’organizzazione dev’essere quello di attrarre talenti dalle caratteristiche più diverse non perché lo suggerisce un business case nato da idee anche discutibili, ma perché è giusto che il diritto al lavoro smetta di essere un privilegio di alcune persone. Inoltre, solo attraverso la presenza degli original life hackers è possibile raggiungere una vera pluralità di idee, di approcci alla soluzione dei problemi, di visioni e quindi una flessibilità e una innovazione altrimenti irraggiungibili.

La convivenza inizia prima ancora che la persona prenda contatto con l’azienda, comincia dal modo in cui viene strutturato il sito internet per essere accessibile a tutte le persone, per esempio. Qualche mese fa sono stato invitato a far parte della giuria di un concorso che assegnava un premio ai progetti di inclusione più efficaci proposti da alcune aziende. Un programma in particolare mi era parso degno di nota. L’iniziativa di una catena della grande distribuzione consisteva nella concessione di una serie di facilitazioni ai clienti anziani o disabili. Tutto bellissimo, se non fosse che l’adesione andava effettuata attraverso il sito internet. Una volta entrato nella pagina sono rimasto interdetto: sfondo bianco brillante, testi in grigio quasi illeggibili, colori accesi, banner di offerte intermittenti impossibili da eliminare, fotografie senza testi alternativi, e un modulo di iscrizione complicato. In pratica, un’iniziativa lodevole che diventa un boomerang perché non accessibile proprio alle persone a cui si rivolge. Quel sito non è ad esempio accessibile alle persone con epilessia fotosensibile (circa il 5 per cento sul totale delle persone epilettiche), che potrebbero addirittura avere una crisi a causa dei banner luminosi. Oppure è inaccessibile alle persone dislessiche a causa del carattere inappropriato dei testi, dello sfondo bianco brillante e della mancanza di contrasto sufficiente. È inaccessibile alle persone cieche o ipovedenti, che non avrebbero ricevuto alcuna informazione sulle fotografie essendo prive di testi alternativi. E, infine, è inaccessibile alle persone con minore facilità nell’uso della tecnologia, come potrebbe accadere nel caso di molte persone anziane.

Il problema, anche in questo caso, non è quindi l’iniziativa in sé ma l’idea di inclusione che, come ho ripetuto fino allo sfinimento, non prende quasi mai in considerazione le reali necessità delle persone a cui si riferisce ma è sempre autoreferenziale, pensata e attuata in base all’idea che qualcuno dall’esterno ha di una categoria dalle caratteristiche differenti. Insomma, testare quel sito facendolo provare a un po’ di persone disabili, dislessiche o anziane avrebbe rappresentato una volontà di convivenza.

Lo stesso discorso vale per le offerte di lavoro presenti sui vari siti (e per la maggior parte dei layout dei siti stessi). Non so quante opportunità ho scartato semplicemente dopo averle aperte perché si presentavano come muri di testo fitti e senza spazi da far mancare il respiro, privi di un’organizzazione che ne rifletteva chiaramente anche il disordine concettuale. E, paradossalmente, alla fine di quegli illeggibili annunci erano sempre presenti i vari testi che raccontavano quanto fosse importante per l’azienda la diversità e l’inclusione. Evidentemente, non delle persone neurodivergenti.
Un altro ostacolo si presenta spesso nella fase di presentazione della candidatura. Una serie di domande aperte e spesso scritte con un linguaggio ambiguo davanti alle quali sarei potuto rimanere per ore senza trovare una risposta. Ma anche il processo di invio dei documenti spesso farraginoso mostra chiaramente una mancanza di comprensione (o forse di interesse) verso una categoria di persone che potrebbe invece apportare a ogni azienda caratteristiche fonte di innovazione.

Per coloro che dovessero superare lo scoglio iniziale dell’application, la situazione si complica successivamente. Quale modalità di comunicazione preferisce la candidata? Non viene mai chiesto, dando per scontato che si dovrà adattare a quelle standard, anche quando si tratta di una persona non standard. In che condizioni si svolge il colloquio? La stanza è adeguata da un punto di vista sensoriale? Molte persone autistiche ad esempio hanno una sensorialità particolarmente accentuata nei confronti di luci, odori, rumori e suoni, cosa che rende loro impossibile effettuare un colloquio in situazioni dove questi stimoli non siano controllati a meno di non voler impedire alla persona di mostrare le proprie capacità. Perché di questo si tratta: mettere in condizioni chiunque, a prescindere dalle proprie caratteristiche, di mostrare cosa può fare.

Un esempio di quanto alcune persone partano in svantaggio se l’azienda non è realmente preparata, o comunque aperta a modalità di selezione che vadano oltre gli stereotipi, può essere il contatto oculare. Culturalmente, per le persone a sviluppo neurologico tipico il contatto oculare durante una conversazione è fondamentale, e a un colloquio è un elemento ritenuto estremamente importante. Bene, per una parte consistente di persone nello spettro autistico il contatto oculare è fonte di stress, può causare ansia e agitazione e distrae impedendo di seguire un discorso e il filo dei propri pensieri. Tutto questo dipende dalla differente organizzazione di alcune aree del sistema nervoso che caratterizza le persone autistiche. Una differenza che però, alla fine dei conti, non ha alcun effetto sulle capacità lavorative o sul rendimento, né tantomeno sull’onestà o sull’affidabilità della persona.

Utilizzando in modo indiscriminato questo parametro standard si escludono o comunque si fanno partire in svantaggio tutte quelle persone che per una ragione qualsiasi utilizzano una modalità di comunicazione non verbale che esclude il contatto oculare. E questo solo per citare un esempio tra i tanti che rendono discriminatorio l’attuale processo di selezione standardizzato e tagliato su un modello di lavoratore e lavoratrice ideale del tutto inesistente. Inoltre, se ci pensiamo bene, a parte l’aspetto discriminatorio c’è l’allontanamento dallo scopo reale della selezione del personale: trovare talento.

La sensazione è che a volte si voglia torchiare la candidata o il candidato rendendo quei minuti di colloquio una sorta di stress test. Ma non si considera un dettaglio: il lavoro è differente. Sul lavoro contano altri fattori che determinano la riuscita o meno di un progetto o di un compito, come la passione per ciò che si fa, la motivazione che deriva anche dal senso di appartenenza alla comunità e all’organizzazione. E, sul lavoro, i livelli di stress non necessariamente sono quelli del colloquio. Fondamentalmente, non trascorri l’intera giornata lavorativa sotto il microscopio sapendo che chi ti osserva tra l’altro lo fa basandosi su modelli che non corrispondono alla realtà. Il processo di candidatura e di selezione filtra quindi le persone in entrata creando un microcosmo aziendale che per sua natura difficilmente è inclusivo. Non permette la convivenza delle differenze perché la maggior parte di quelle più evidenti viene trattenuta dalle maglie fitte di un processo di scrematura attento solo ad alcune caratteristiche standard, passando serenamente sopra a tutto il resto.

Cosa significa tutto questo? Significa che la società, che è di per sé varia e diversa, smette di esserlo quando passa attraverso il filtro della candidatura e della selezione del personale. Significa inoltre che molte persone “diverse”, per riuscire a far parte del mondo del lavoro mentono, e si sottomettono all’umiliazione di essere filtrate, di dover apparire “normali” nascondendo le proprie caratteristiche perché verrebbero giudicate come segnali di debolezza, di non conformità agli standard imposti sul lavoro. Questo fa sì che il personale contenga una parte di diversità non troppo “diversa” oppure in grado di camuffarsi da normalità – almeno durante la fase di recruitment – che è sfuggita alle maglie del filtro iniziale della selezione. Queste persone, una volta dentro, cercano di nascondere le proprie differenze o, quando non lo fanno, troppo spesso pagano il prezzo di voler esercitare un diritto innegabile eppure, spesso involontariamente, negato: esprimere la propria essenza.

La convivenza comincia quindi prima del primo contatto con l’azienda, quando le potenziali candidate non vi si sono ancora avvicinate; deve necessariamente essere qualcosa di più di un semplice processo. Quella della convivenza è realmente una cultura, è un cambio di mindset che deve avvenire a priori. Questa cosa mi ricorda un po’ quando da bambino mia madre mi sorprese a infilarmi un dito nel naso. Mi guardò e disse: “Le dita nel naso non devi infilarle mai, nemmeno quando sei da solo di notte in camera tua”. Non importa che esista un osservatore, noi dobbiamo ragionare in termini di convivenza a prescindere. Immaginatela come la convivenza di Schrödinger, una questione quantistica: la convivenza deve esistere a prescindere dall’osservatore.

(Tratto da: Fabrizio Acanfora, Di pari passo, il lavoro oltre l’idea di inclusione, LUISS University Press, 2022. Disponibile a questo link)

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