Non chiamatela inclusione: autismo e mondo del lavoro

Una notizia giunta dagli Stati uniti conferma quello che dico ormai da un bel po’: l’inclusione è un concetto che contiene in sé una profonda contraddizione perché non coinvolge in modo paritario tutte le parti in gioco, ma alimenta uno squilibrio di potere tra il gruppo di maggioranza, che può decidere se e a quali condizioni includere, e le minoranze, che per entrare a far parte della maggioranza devono accettarne le condizioni che, quasi sempre, significano rinunciare alla propria unicità.

La notizia è la seguente: un gruppo di ricerca che vede impegnate alcune prestigiose università tra cui spiccano i nomi della Vanderbilt University – che guida il progetto – la Yale University, Georgia Tech e lo Yang-Tan Institute della Cornell University, ha ricevuto una sovvenzione di 5 milioni di dollari dalla National Science Foundation per “aiutare le persone nello spettro autistico a raggiungere migliori risultati nel mondo del lavoro”.

L’affermazione iniziale di Susanne Bruyère, una delle ricercatrici coinvolte nel progetto, farebbe inizialmente ben sperare, anche se cade nell’errore piuttosto comune di utilizzare l’aggettivo “neurodiversǝ” per indicare invece le persone “neuroatipiche”[1]. Dice Bruyère: “L’obiettivo generale del progetto è migliorare i risultati occupazionali per gli individui neurodiversi, in particolare quelli con autismo [così nel testo originale], che sono significativamente sottoccupati o disoccupati rispetto ai loro coetanei neurotipici”[2]

Il gruppo di studio (che dalle ricerche svolte non mi risulta comprenda alcuna persona autistica) ha intervistato tutte le parti interessate nel processo di selezione del personale (aziende, servizi e consulenti per l’impiego) e alcune neuroatipiche, per potere individuare le barriere che le persone autistiche incontrano durante i colloqui per la ricerca di un impiego. E, fino a questo punto, tutto sembrerebbe andare bene.

Poi, finalmente, ci viene svelato lo scopo reale del progetto: “Questi dati informeranno il team di progettazione che utilizzerà l’intelligenza artificiale e altri strumenti virtuali per creare un processo di coaching che aumenterà la probabilità di risultati positivi”. Già, coaching, training che aiuterà le autistiche e gli autistici a migliorare le chance di superare un colloquio e trovare lavoro, ma nessun riferimento alla rimozione delle barriere di cui si parlava.

E torniamo alla mia riflessione iniziale sull’inclusione: davvero addestrare delle persone autistiche a fingersi neurotipiche è il miglior modo per spendere 5 milioni di dollari? Parliamo di persone che già durante la giornata sono costrette a indossare la maschera della normalità, a dover fingere comportamenti che per quanto possano essere appresi non saranno mai naturali per loro.

Soprattutto, mi domando: è previsto qualche training anche per le aziende, per apprendere come interagire con le persone neuroatipiche? Assolutamente no, il succo della faccenda, come sempre, è che a fare tutto il lavoro devono essere sempre e solo le autistiche e gli autistici. Noi dobbiamo studiare e capire il mondo neurotipico, apprenderne le regole e fare lo sforzo di tradurre le informazioni, i sentimenti e i comportamenti che ci caratterizzano al linguaggio neurotipico. Ecco l’inclusione.

La cosa più avvilente è leggere quali sarebbero le tecnologie, che dovrebbero assistere noi autistiche nella ricerca di lavoro, sviluppate durante il progetto. E cito testualmente dall’articolo (la traduzione è mia):

  • un sistema di valutazione che integra un eye tracker [un sistema per monitorare dove puntano gli occhi di chi lo indossa] indossabile, telecamere e algoritmi di visione artificiale per produrre una registrazione dettagliata delle prestazioni della persona nei compiti cognitivi visuospaziali;

  • un simulatore di colloqui di lavoro basato sulla realtà virtuale che rileva l’ansia e l’attenzione dell’utente attraverso dispositivi informatici indossabili, e che fornisce feedback e coaching;

  • una piattaforma di realtà virtuale collaborativa per valutare e aiutare le capacità di team building attraverso l’interazione intelligente peer-based e agent-based;

  • un robot sociale da utilizzare in ambienti domestici per migliorare la resilienza e la tolleranza con le interruzioni legate al lavoro;

  • uno strumento basato sulla visione artificiale per valutare la comunicazione non verbale in contesti reali.

Quello che mi colpisce di un approccio di questo tipo è la totale mancanza di reciprocità nella creazione di un processo inclusivo. Si parte cioè dal presupposto che le persone neuroatipiche abbiano una serie di deficit nell’area sociale e della comunicazione, e su questo pregiudizio si studiano strumenti per addestrarle a “riparare” tali guasti. Non viene assolutamente considerata la possibilità che, invece che deficit, possiamo trovarci davanti a delle differenze in queste aree, e che interventi di questo tipo siano profondamente lesivi della dignità delle persone autistiche.

Non sto mettendo in discussione l’utilità di training e strumenti che possano aiutare noi neuroatipici a comprendere determinate dinamiche, ma una parte fondamentale, direi assolutamente indispensabile del processo di inclusione lavorativa, deve necessariamente passare per la formazione del personale neurotipico, delle manager, degli impiegati, insomma, della maggioranza.

Nessuno pare inoltre preoccuparsi delle conseguenze che questi interventi hanno sulle persone autistiche. Eppure basterebbe coinvolgere proprio noi neuroatipici già dalla fase di progettazione, e non utilizzarci solo come cavie di laboratorio, e probabilmente certe lacune salterebbero fuori prima di arrivare a conclusioni così scontate e deprimenti. Fingere di essere diverse da chi siamo, non poter utilizzare dei codici sociali e comunicativi condivisi da entrambi i gruppi ma essere obbligati a utilizzare solo quelli della maggioranza, sono condizioni che facilmente portano verso il burnout perché richiedono uno sforzo cognitivo ed emotivo enorme e costante.

Inoltre, interventi pseudo-inclusivi come questo creano ulteriori problemi nella realizzazione professionale delle persone autistiche, rappresentando un limite enorme anche per le imprese. Se la ricerca di talenti è una priorità per le aziende, allora un approccio castrante che vede gli autistici impossibilitati a essere se stessi, non favorisce di certo l’espressione delle loro migliori qualità. Come si fa a dare il meglio di sé, a sentirsi libere di esprimere idee che potrebbero cambiare completamente l’approccio a determinati problemi, quando si viene addestrate a non fare o dire nulla che non rientri negli schemi di quella “normalità” imposta come unica opzione sociale, culturale e comunicativa attraverso corsi e simulazioni?

Come si fa a generare talento e innovazione; in che modo è possibile liberare e sfruttare il potenziale della diversità di cui tanto si parla in tutti i business case sulla Diversity & Inclusion se poi la diversità viene costretta ad assomigliare alla normalità? Possibile che nessuno veda il paradosso insito in questo approccio?

Quello proposto da questo gruppo di lavoro, e premiato con una così ghiotta sovvenzione, è l’approccio unidirezionale tipico della visione deficitaria della neuroatipicità figlia di un modello medico che, sconfinando dall’ambito clinico in quello sociale e lavorativo, ha creato l’immagine dell’autistica come di un neurotipica mancata. Queste pratiche non mirano a fornire a tutte le stesse opportunità, ma limitano l’accesso alle opportunità solo a chi decide di rinunciare al proprio modo di essere, accettando di acquisire senza discutere le abitudini, le regole, la percezione del mondo di chi invece non ha intenzione di fare un passo verso l’altra.

Nella descrizione iniziale del progetto era presente un chiaro riferimento alle barriere che impedirebbero alle autistiche di ottenere buoni risultati durante i colloqui di lavoro. Tali barriere sono il risultato dell’interazione tra due mondi che hanno codici di funzionamento a volte molto differenti, e la soluzione come già detto non può passare attraverso l’addestramento di una parte a imitare l’altra, ma deve essere mirato a stimolare la comprensione reciproca. Ciascuna delle due parti apprende e studia le modalità dell’altra, e a nessuna delle due ne viene imposta una: ci si educa all’ascolto, alla comprensione, a non giudicare i metodi e gli approcci in base a chi li usa ma guardare ai risultati raggiunti.

Rimane inoltre aperta la questione ambientale vera e propria: i suoni, i rumori, le luci, gli sguardi, la temperatura della stanza dove si effettuerà il colloquio, tutti fattori che possono essere di enorme disturbo perché sono progettati per persone che hanno una modalità percettiva differente da quella autistica. Su questi fattori non viene proposto alcun intervento, e sicuramente non è attraverso l’uso di un robot che simula le interruzioni che potrebbero verificarsi in un ufficio, che si risolve il problema. Sappiamo bene che non ci si abitua a vivere in una situazione innaturale, al massimo si sopporta pagandone poi le conseguenze in salute fisica e mentale.

Quello proposto dal gruppo di lavoro è semplicemente l’ennesimo intervento comportamentale che mira a nascondere (non a eliminare, perché quello per fortuna non è possibile) la diversità, a frustrare l’unicità di ciascuna persona a prescindere dalle proprie caratteristiche; insomma l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere l’inclusione.

NOTE:
[1] Per una spiegazione del termine neurodiversità e le differenze con la definizione di “neuroatipicità”, vedi qui: https://www.fabrizioacanfora.eu/glossario-della-diversita/
[2] Testo tratto da: https://news.cornell.edu/stories/2020/09/yang-tan-institute-team-studying-autism-and-work-outcomes

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