Introversione, timidezza e mondo del lavoro

Su sfondo nero, una persona di cui si vedono solo gli occhi, con un cappello di lana infilato in testa che fa capolino

In un articolo piuttosto banale e ricco di spunti motivazionali – di quelli che vanno tanto di moda oggi – Deb Liu, CEO di Ancestry.com, ci racconta che il mondo del lavoro non è fatto per le persone introverse. Per avvalorare la scoperta, cita perfino uno studio che conferma come il 50% delle persone in ufficio dichiari di essere introverso, soffrendo per questa situazione.

Molto interessante, si potrebbe pensare; effettivamente l’ambiente lavorativo è generalmente competitivo, basato su principi che premiano l’iniziativa e l’intraprendenza, si regge su una socialità molto esplicita, spesso forzatamente positiva, tutte cose che realmente alle persone introverse (ma a chiunque abbia una socialità differente dalla media) possono rendere la vita difficile.

Così, dopo aver riflettuto approfonditamente sulla questione, qual è la soluzione geniale a cui è giunta Deb Liu? Impegnarsi usando il potere derivante dalla propria posizione manageriale per rendere l’ambiente lavorativo – almeno nella sua azienda – aperto a tutti, non solo alle persone più estroverse? No.

Nell’ottica del miglioramento personale, della responsabilità individuale e della lotta per la sopravvivenza del più adatto che pervadono ancora il mondo del lavoro, lei ha deciso di forzare sé stessa a diventare ciò che gli altri si aspettano debba essere, e conformarsi a uno standard che esclude chiunque abbia caratteristiche differenti dalla maggioranza. Ha deciso, insomma, che quell’ambiente nel quale si sente tanto a disagio va bene così com’è, e che è lei a essere sbagliata, a dover essere riparata, a dover diventare come gli altri. Insomma, che la responsabilità della propria esclusione è sua, non della società che la esclude per essere chi è.

Quando faccio formazione alle aziende per l’inserimento di persone autistiche, uno dei consigli che do riguarda la questione dei turni di parola durante le riunioni. Molte persone autistiche, me compreso, hanno difficoltà nel comprendere i turni di parola che per i neurotipici sono generalmente qualcosa di intuitivo. Questo può derivare dal fatto che una persona autistica interpreta determinati segnali e convenzioni sociali in modo differente, e potrebbe non cogliere un’inflessione nella voce, un cenno del capo o uno sguardo che per un neurotipico potrebbero significare: a te la parola. Oppure la difficoltà a entrare in una conversazione potrebbe nascere dalla differente sensorialità che a volte non permette di distinguere facilmente i discorsi quando più persone parlano contemporaneamente.

Qualunque sia il motivo, la persona autistica potrebbe avere un’idea, vorrebbe intervenire ma non sa quando interrompere, e visto che fin da bambina le è stato detto che non si interrompe chi parla, preferisce rimanere in silenzio.

A questo punto, faccio notare che questa dinamica fa perdere alle aziende nuove idee, impedendo di fatto ad alcune persone di apportare il proprio contributo e suggerisco di evitare situazioni competitive che non giovano a nessuno e di mettere invece tutte le persone in grado di intervenire. Magari facendo regolarmente giri di domande per sapere se ci sono idee o suggerimenti, oppure individuando proprio le persone che intervengono di meno e cercando di metterle a proprio agio, chiedendo loro se hanno qualcosa da dire, o invitando anche a utilizzare modalità di intervento differenti come una chat, ad esempio. Insomma, ci sono tanti modi per riuscire a rendere l’ambiente lavorativo più aperto a chi è meno estroverso, e il vantaggio è come sempre per entrambe le parti.

Ma la cosa interessante è che, durante queste formazioni specifiche sull’autismo, sono tante le persone che intervengono (spesso appunto in chat, perché specifico sempre che ciascuna persona può usare il mezzo che preferisce) spiegando che questa difficoltà non riguarda solo le persone autistiche, ma anche quelle introverse. Non si contano le volte in cui dipendenti di un’azienda abbiano lamentato il fatto che essere introversi viene costantemente stigmatizzato, spesso si è spronati a essere più decisi, meno timidi, col risultato di bloccarsi definitivamente sentendosi inadeguati.

Eppure costruire una società in cui le differenze possano convivere rispettandosi, arricchendo il mondo, potrebbe non essere così difficile. Ma necessita di un piccolo gesto iniziale: che ciascuna persona sia disposta a mettere in discussione il proprio modo di vedere la realtà, sospendendo il giudizio sulle persone che mostrano caratteristiche differenti dalle proprie.

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