Quanto valgo? Quanto vale il mio lavoro? È una domanda che le persone appartenenti a categorie marginalizzate come quella delle neurodivergenze sono spesso portate a porsi, e la cui risposta è fortemente condizionata dall’immagine che la società crea di esse.
In quanto persona autistica diagnosticata in età adulta, mi sono ritrovato a essere stigmatizzato due volte: da bambino e adolescente come pigro, disattento, discontinuo nel rendimento, inaffidabile, troppo pignolo, a volte geniale ma poco attento, troppo preso dai miei interessi strani, goffo, asociale, inopportuno. Da adulto, in quanto autistico, la narrazione che la società fa di me e delle persone come me è prettamente deficitaria, figlia di un modello medico che pervade anche ambiti che non le appartengono, come quello aziendale.
L’autismo è percepito come un funzionamento inferiore rispetto alla norma, che invece è presa come unico riferimento positivo da raggiungere o imitare, anche a costo di dover soffocare le specifiche unicità di ciascun individuo.
E così le persone autistiche, che siano diagnosticate in tenera età o successivamente, crescono pensando di valere poco, di essere inferiori in diverse aree del proprio funzionamento, soprattutto quello sociale e relazionale. Quel pensiero laterale così mitizzato in ambito aziendale, modalità cognitiva che nell’autismo è una caratteristica comune proprio perché si tratta di un funzionamento neurologico differente, non viene valorizzato ma spesso additato come non conforme e stroncato sul nascere.
Quanto vale il mio lavoro? Poco, tendo a pensare, meno di quello delle altre persone. Perché fin da bambino sono cresciuto sentendomi dire che le cose vanno fatte in un altro modo, che non posso fare solo quello che mi piace (in cui però riesco benissimo, ma tant’è), che bisogna fare come gli altri, che se si è sempre fatto così ci sarà un motivo. Il mio lavoro vale poco perché è il lavoro di un autistico, e la società quelli come me li vede come creature inferiori, crogioli di difetti e incapacità. Il lavoro di una persona autistica vale poco perché quando finalmente arriva un’occasione non vuole perderla, anche se deve lavorare in condizioni svantaggiose, sottopagata, demansionata. Vale poco perché il senso di inferiorità che spesso si sviluppa impedisce di chiedere quanto dovuto, quasi ci si vergogna a farsi pagare.
Non lasciatevi ingannare dal mito del superautistico cervello ribelle, dal genio dell’informatica. Questo nuovo stereotipo, in puro stile Inspiration Porn, è un racconto che mette in luce solo alcune presunte caratteristiche di una condizione per coprire quegli aspetti che la società continua a percepire e spacciare come difetti.
E allora, quanto vale il mio lavoro? Quanto vale il lavoro di ogni persona appartenente a una categoria minoritaria? Quanto vale il lavoro di chi la società ha escluso per essere come è? Di chi per strappare qualche opportunità deve sottoporsi a un processo di inclusione paternalistico che alimenta quella sensazione di inferiorità perché sai, da solǝ non ce la faresti, non sei abbastanza, dobbiamo aiutarti noi.
La disoccupazione tra le persone autistiche è spaventosa. Un sondaggio della National Autistic Society ha rivelato che nel Regno Unito solo il 32% delle autistiche e degli autistici ha un qualche tipo di lavoro pagato (contro oltre l’80% delle persone non autistiche), ma un lavoro pagato full time è un lusso concesso solo al 16% di questa categoria[1]. In Germania invece uno studio ha mostrato come “Nonostante un livello di istruzione generale superiore alla media in termini di qualifiche scolastiche e un alto livello di istruzione e formazione formale, anche superiore al livello all’interno della popolazione generale, gli adulti con diagnosi in età avanzata di Disturbo dello Spettro Autistico […] sembrano faticare a mantenere posizioni professionali adeguate alle loro qualifiche formali e spesso non vengono adeguatamente impiegate”[2].
Sono numeri che dovrebbero far riflettere sulla necessità di un cambiamento di paradigma nei confronti delle neurodivergenze, soprattutto perché dietro quei numeri ci sono vite, ci sono aspirazioni che vengono costantemente frustrate, necessità che non riescono a essere soddisfatte, ci sono bisogni elementari come quello di poter provvedere a se stessǝ, di essere indipendenti. Dietro quei numeri c’è la frustrazione di chi a forza di rifiuti, a forza di sentirselo dire, a un certo punto davvero comincia a convincersi di non valere quanto le altre persone. E la domanda comincia a girarti per la testa sempre più spesso: quanto valgo? Quanto vale il mio lavoro?
NOTE:
[1] https://tinyurl.com/2h74yd3a
[2] Frank, F., Jablotschkin, M., Arthen, T., Riedel, A., Fangmeier, T., Hölzel, L. P., & Tebartz van Elst, L. (2018). Education and employment status of adults with autism spectrum disorders in Germany – a cross-sectional-survey. BMC Psychiatry, 18(1).