Di cuciture ed etichette

Una giovane donna grattandosi il braccio sinistro con aria infastidita

La questione sta nel tatto. Una maglietta, un paio di pantaloni, un capo d’abbigliamento qualsiasi non lo scelgo in base al colore o al taglio, ma da come sento la stoffa sotto le dita. Certo, da ragazzino mi dicevano ti vesti che sembri un profugo, ma almeno io stavo comodo.

Ancora oggi il criterio principale che regola la scelta degli indumenti che indosso è lo stesso: devono essere morbidi al tatto. La lana sulla pelle punge letteralmente e il cotone, anche quello, dev’essere liscio e soffice. Le cuciture e le etichette poi sono il male, e spesso mi ritrovo con dolorose irritazioni proprio in corrispondenza di una cucitura. I vestiti migliori sono quelli che ho già usato parecchio e lavato milioni di volte, quelli dalla consistenza impalpabile.

Da bambino mia madre non riusciva a spiegarsi perché, quando mi infilava una maglietta di lana, dopo pochi minuti cominciavo a lamentarmi e grattarmi come se fossi stato infestato dalle pulci. E quindi, visto che già soffrivo di una marea di allergie, la cosa fu attribuita a un’ipotetica allergia alla lana. Sulle cuciture dei calzini, che mi costringevano ad andare in giro per casa scalzo anche in inverno, invece non ci fu mai una spiegazione ufficiale, anche perché l’allergia alle cuciture pareva un po’ estrema.

La mia pelle è forse tanto sensibile quanto il mio udito. Solo il freddo pare non avere alcun effetto su di essa, ma per il resto riesco a provare fastidio fisico anche per l’aria che mi sfiora, se mi trovo in un momento di particolare sensibilità.

Questa cosa dei vestiti l’ho osservata spesso anche all’istituto. Bambine e bambini che appena arrivano per la sessione si sfilano scarpe e calzini, oppure improvvisamente prendono a spogliarsi come in preda a un raptus. E le terapiste all’inizio non capivano, cercavano di bloccarli, insistevano che no, non si fa, non ci si spoglia in pubblico, pensando come al solito che fosse un comportamento privo di senso. Perché lo sappiamo, quando una persona autistica fa qualcosa di diverso da quello che ci si aspetterebbe in una specifica situazione, il primo pensiero è che quel comportamento non abbia un significato e quindi vada corretto.

Eppure basterebbe domandarsi cosa possa spingere un bambino o una bambina autistica a tirarsi via scarpe e calze; basterebbe osservare l’espressione di sollievo sul loro volto dopo essersi liberate della maledetta cucitura o dell’etichetta che pungono come spilli, o del tessuto ruvido che sulla pelle ha lo stesso effetto della carta vetrata.

Questa necessità di comodità nell’abbigliamento viene spesso fraintesa. È sciatta, è stravagante, non ha gusto, veste male, sembra un pagliaccio, guarda come abbina i colori, oddio, ma quei pantaloni nemmeno mio nonno li porterebbe più. Cose che anche io mi sono sentito dire dire, giudizi impietosi a volte sussurrati alle nostre spalle. Potrà sembrare una sciocchezza ma per alcune persone non è affatto semplice riuscire a mantenere un aspetto all’altezza delle aspettative in una società ossessionata dalle apparenze, non è facile contemporaneamente soddisfare la necessità di eliminare stimoli tattili che potrebbero metterci in crisi ed estetica. Ieri, ad esempio, ho scoperto con orrore uno strappo in un paio dei miei pantaloni preferiti.

Partiamo dal fatto che detesto fare shopping, che i negozi sono pieni di gente, luci abbaglianti, musica che stordisce e merci colorate che danno il mal di mare e allora, per minimizzare il trauma, compro in stock: tre paia di pantaloni, cinque magliette, tre camicie dello stesso modello ma di colori diversi. I calzini neri, tutti. Un cassetto pieno di calzini neri tutti uguali.

Il problema è che anche quando compro dei pantaloni uguali, la consistenza del tessuto può variare a seconda del colore, e allora finisco per usarne sempre un paio più degli altri fino a che, purtroppo, non arriva il giorno della tragedia e si strappano. E ieri è accaduto ai miei pantaloni blu. Così, armato di tanta pazienza, mi sono imbacuccato nel mio piumino fino a scomparire agli occhi del mondo, ho sfidato l’ansia da shopping e sono andato al negozio dei pantaloni blu, con la foto dell’etichetta nel cellulare per beccarli al primo colpo.

Immaginavo che non sarebbe stato facile trovarli identici, perché c’è questa mania che un capo d’abbigliamento non può durare più di una stagione, per questo cerco di fare scorte quando trovo qualcosa di comodo. E infatti, i miei pantaloni blu non c’erano. In preda al panico sono rimasto a frugare nell’angolo della vergogna, in quella parte di ogni negozio in cui vengono sbattute le rimanenze di magazzino, mescolate senza un ordine preciso, come una punizione per chi insiste a non voler seguire la moda del momento. Ma niente, ce n’era solo un paio di una taglia inferiore, e così ho dovuto ripiegare su un altro modello sperando che, lavandoli un po’ di volte, diventino lisci e comodi come i defunti pantaloni blu.

La storiella sembra divertente e magari raccontata così lo è. Ma è una di quelle cose che appaiono insignificanti a chi di esse non deve preoccuparsi, e che invece contribuiscono giorno dopo giorno, insieme a tante altre, a farti percepire fuori dal mondo. Oggi sono stati i pantaloni, ieri era la crisi scatenata dai vicini che guardavano la televisione a un volume che io – e solo io – percepivo troppo alto. E ogni giorno ce ne sono tanti, di questi piccoli scontri con una realtà spesso inospitale, con la normalità che ovviamente di certe cose non si cura perché non ne immagina l’esistenza.

Per questo trovo importante spiegare anche particolarità apparentemente insignificanti come questa, perché così la prossima volta che quella bambina autistica in classe cercherà di sfilarsi le scarpe e i calzini, non apparirà come una creatura in preda alla follia; perché si comprenda quanto possa essere difficile concentrarsi su un discorso, su una lezione o durante una riunione di lavoro quando l’etichetta della maglietta, che per la fretta non hai potuto tagliare, ha deciso di renderti la vita impossibile e dirottare tutta la tua attenzione sulla sensazione di aghi che ti trafiggono la tua pelle.

È importante raccontare anche quelle cose che a persone non autistiche sembrano sciocchezze proprio perché, se così appaiono alla maggioranza, è solo perché di quelle cose loro non devono preoccuparsi. Minuscolo, sicuramente, ma anche poter scegliere i vestiti senza il timore che si rivelino degli strumenti di tortura e sofferenza è un piccolo privilegio del quale alcune persone non possono godere. Un piccolissimo ostacolo che si va a sommare a tanti altri creando quella sensazione di essere sempre, costantemente, fuori luogo.

P. S. A dimostrazione che l’ipersensibilità tattile è parecchio diffusa tra le persone autistiche, stanno sorgendo diverse linee di abbigliamento specifiche senza cuciture né etichette e con tessuti particolarmente comodi, basta cercare su Google e vi si aprirà un mondo.

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