Una settimana in giro per l’Italia parlando di autismo.
E’ stata un’esperienza meravigliosa che è cominciata con la partecipazione all’evento organizzato dall’associazione Spazio Asperger ONLUS a Milano il 17 febbraio, in occasione della giornata mondiale della sindrome di Asperger, e si è conclusa con l’ultima presentazione di Eccentrico a Roma, giovedì sera.
Chi mi conosce sa quanto per me viaggiare sia tutt’altro che facile (ho spiegato il perché in questo post): significa dover rinunciare alla mia routine quotidiana, affrontare una serie di cambiamenti che innescano ansia, sensazione di insicurezza e allerta costanti. Eppure, nonostante tutte le difficoltà, è stata un’esperienza che mi ha arricchito moltissimo. Ho potuto conoscere tantissime persone come me con le quali mi sono sentito immediatamente a mio agio, e inoltre ho avuto la conferma di quanto sia importante spiegare alla gente cos’è l’autismo, quanti stereotipi fuorvianti ancora circolano su questa condizione, quanto le persone desiderino capire anche per poter comprendere meglio i propri figli, familiari e amici.
Durante il giro di presentazioni in diverse città italiane, il pubblico ha posto molte domande, tutte estremamente interessanti. Una però si è ripetuta in più di un’occasione, e credo meriti un maggiore approfondimento.
La domanda – posta in varie forme, la cui sostanza però è sempre la stessa – riguarda la definizione stessa di spettro della condizione autistica. Diverse persone non riuscivano a capire come fosse possibile raggiungere una diagnosi in presenza di manifestazioni così differenti tra loro. E’ davvero utile etichettare una persona che, alla fin fine, mostra semplicemente dei comportamenti dissimili dalla norma? Siamo tutti un po’ autistici?
Prima di tutto, una spiegazione doverosa: le ultime edizioni dei manuali diagnostici di riferimento utilizzati dagli specialisti per giungere a una diagnosi (DSM-5 e ICD-11) definiscono appunto l’autismo come uno spettro, una serie di caratteristiche (non mi piace utilizzare la parola sintomi perché associata a un’idea patologica di una condizione che patologia non è) che in misura differente sono distribuite in tutta la popolazione, anche non autistica. In questo spettro oggi rientrano anche condizioni come la sindrome di Asperger e il PDD-NOS che non verrebbero più diagnosticate come condizioni indipendenti.
Una volta spiegato questo in genere qualcuno esordisce sostenendo che, seguendo questo ragionamento, saremmo tutti un po’ autistici. Per quanto si potrebbe essere portati a pensare che non ci sia niente di male in questa idea, c’è un errore di fondo abbastanza grande, che vedrebbe l’autismo come qualcosa di indefinibile proprio perché le sue caratteristiche sono comuni a tante persone.
In realtà, sebbene tutti possono manifestare alcuni comportamenti caratteristici della condizione autistica, ci sono persone che di quelle caratteristiche ne hanno tante, tutte insieme e spesso con un’intensità tale da rendere differente il modo di percepire, elaborare e vivere il mondo rispetto alla maggioranza della popolazione.
E’ vero che i comportamenti autostimolatori (stimming in inglese) possono essere comuni a tutti; chiunque sa che in momenti di particolare ansia è del tutto normale agitare rapidamente la punta del piede o tamburellare con le dita sul tavolo, giocare con l’anello o addirittura, in momenti particolarmente difficili e di forte stress, dondolarsi. Ma negli autistici questi comportamenti sono estremamente evidenti e vengono messi in atto con una frequenza maggiore, fino al punto di essere socialmente stigmatizzanti. E’ il caso ad esempio di chi trova necessario sfarfallare le mani e viene immediatamente visto come buffo, strano, anormale se lo fa in pubblico.
Allo stesso modo alcune persone, anche al di fuori dello spettro autistico, trovano confortante seguire delle routine abbastanza ferree durante la giornata. Per un autistico però, in molti casi, il minimo cambiamento a quelle routine può causare stati di ansia difficili da gestire o addirittura crisi come i meltdown.
Va bene, mi è stato detto, quindi per essere definito autistico bisogna che quelle caratteristiche comuni un po’ a tutti siano estremamente concentrate e con una forza tale da rendere evidente la differenza di quella persona nel modo di relazionarsi alla realtà. Ma com’è possibile che sotto una stessa definizione vengano riunite manifestazioni così differenti tra loro e spesso opposte?
Effettivamente si sente spesso dire che non esiste un autistico uguale all’altro, che ognuno ha un modo unico di esprimere determinate caratteristiche e che è inutile se non dannoso creare degli stereotipi intorno a questa condizione.
Ci sono autistici che hanno un modo letterale di comprendere il linguaggio verbale mentre altri riescono facilmente a comprendere metafore e giochi di parole, autistici che hanno una estrema tolleranza al freddo e altri che sopportano benissimo il caldo. Ho conosciuto autistici che non riescono a tollerare il contato fisico (io stesso ne sono un esempio, e lo racconto qui) mentre altri sono così fisici che spesso risultano invadenti e inopportuni, e potrei andare avanti per ore.
Anche qui si tratta di un errore di interpretazione. Il fatto è che non bisogna guardare solo alla manifestazione più evidente, ma alla causa. Quando vediamo due autistici che reagiscono in modo praticamente opposto al contatto fisico, stiamo comunque assistendo a una interpretazione anormale (intesa semplicemente come differente dalla norma, espressa dalla maggioranza della popolazione) di determinati stimoli sensoriali. Lo stesso vale per l’interpretazione delle regole sociali, del linguaggio non verbale e di ogni altra caratteristica della condizione autistica: se guardiamo alle cause è molto facile riuscire a trovare una spiegazione comune a espressioni solo apparentemente opposte.
In generale nei manuali diagnostici queste caratteristiche vengono definite tutte come deficit e, se consideriamo che tali manuali sono stati scritti da persone neurotipiche che per forza di cose hanno una visione del mondo neurotipica, è facile comprendere il perché di questo spiacevole pregiudizio. Personalmente, e l’ho detto in molte occasioni, trovo che la maggior parte dei cosiddetti deficit che vengono indicati come criteri diagnostici sono tali solo nel momento in cui ci viene fatto notare che debbano esserlo.
Ho notato, una volta spiegate certe cose in modo semplice e con esempi comprensibili, che anche persone inizialmente scettiche hanno compreso quanto la diagnosi di autismo non sia semplicemente un’etichetta da appiccicare su una persona ma un modo per e spiegare determinate caratteristiche che altrimenti non verrebbero comprese, con il rischio di perdere l’opportunità di trovare strategie, aiuti o servizi che possano migliorare la qualità di vita dell’autistico. Inoltre, sapere da cosa dipendano determinati comportamenti o reazioni aiuta a sentirsi meno colpevoli di certe stranezze, riuscendo a inquadrarle in una visione più ampia che veda la neurodiversità come una condizione che non va per forza modificata ma compresa prima di tutto dall’autistico stesso, per poter trovare il modo migliore di relazionarsi al mondo neurotipico
Credo che sia estremamente importante cercare di raccontare l’autismo e che a farlo siamo noi autistici, che questa condizione la viviamo da dentro quotidianamente.
Finché l’autismo sarà raccontato e soprattutto definito da persone che, seppure con le migliori intenzioni, non arriveranno mai a comprendere fino in fondo tutte quelle caratteristiche – a volte semplici sfumature, altre volte differenze enormi – che rendono l’autistico unico nel bene e nel male, rimarremo sempre vittime di stereotipi e interpretazioni cliniche che ci fanno apparire come una collezione di deficit, persone che vanno aiutate a diventare normali, gestibili e più rispondenti agli standard sociali così necessari a chi la diversità tende a interpretarla principalmente come qualcosa da normalizzare.
1 comments On Ma allora siamo tutti un po’ autistici?
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