Abbracci

Dalla qualche giorno ho una nuova allieva di pianoforte all’Istituto di Musicoterapia. E’ una bambina autistica con buone abilità di interazione e delle incredibili capacità musicali.

S. è di poche parole, diciamo che parla solo se costretta, e quando lo fa sembra terrorizzata di poter dire qualcosa di sbagliato. Eppure si vede che ha carattere, soprattutto quando si siede al piano.

Quando è entrata nella sala dove teniamo il pianoforte a coda è rimasta in piedi con gli occhi sbarrati fissi sullo strumento. Non osava avvicinarsi, ma era chiaro che lo desiderava terribilmente. In quel momento ho rivisto me stesso ogni volta che mi trovo davanti a un pianoforte o a un clavicembalo: devo suonarlo, e se non sono sicuro di poterlo fare, rimango impalato, immobile senza sapere che fare.

“Puoi sederti e suonare, il pianoforte è lì per te” le dico. Non se lo lascia ripetere; in un secondo è già seduta che suona.

Nei 45 minuti successivi ho scoperto che S. ha una pssione incredibile per la colonna sonora di un videogioco. Bella musica, interessante, ma la cosa che mi ha colpito è che lei, senza mai aver preso una sola lezione di pianoforte, ha imparato a memoria più di due ore di musica ascoltandole da un video su youtube.

Io però volevo sapere se le interessava anche altra musica e quindi, dopo un po’, le ho suonato qualcosa, un po’ di Bach, Beethoven, Chopin, Debussy…

“Questo ti piace?” le domando dopo ogni brano.

“Non è male…” risponde ogni volta.

Alla fine del primo incontro giungiamo a un accordo: che le insegnerò la tecnica al pianoforte (almeno le basi) utilizzando la musica del videogioco che tanto le piace. Mi è sembrato un buon accordo dal quale entrambi usciamo imparando qualcosa. Però non riuscivo a smettere di pensare a questo suo modo assai timoroso di muoversi, di parlare. Fino a che non l’ho accompagnata in sala d’aspetto e ho conosciuto sua madre.

Mi rendo conto perfettamente di quanto possa essere complicato avere un figlio o una figlia nello spettro autistico. E oggi la cosa è meno pesante di vent’anni fa. Quando ero ragazzino io certe diagnosi nemmeno esistevano e rimanevi lo scoppiato, il figlio che ‘non sta bene‘, o peggio ancora ‘l’artista‘. E i genitori trascorrevano la vita massacrandosi di sensi di colpa, di domande senza risposta: dove avremo sbagliato, che abiamo fatto perché venisse fuori così…

Oggi no. Oggi, per fortuna, si sa che se un bambino o un adolescente presenta determinati comportamenti, può ricevere una diagnosi di autismo. Il che è estremamente utile, al contrario di quanto pensino tutti coloro ai quali le etichette danno fastidio. E’ utile, la diagnosi, perché il bambino viene messo in condizione di sviluppare strategie adeguate e in sintonia con le proprie capacità e le proprie inclinazioni.

Prima, quando non esistevano tante ‘etichette‘, come è capitato a me, venivi semplicemente, sottilmente torturato a casa, a scuola, dagli amici, perché non funzionavi come avresti dovuto.

Interessi ossessivi in argomenti troppo particolari? Male!
Preferisce stare solo invece di socializzare come tutti gli altri? Meniamolo!
Spesso dimentica di salutare entrando o uscendo da un negozio? Maleducato!
Ha la testa tra le nuvole, troppo tra le nuvole? Terribile
Gli dà fastidio la lana sulla pelle e non sopporta le etichette dei vestiti? Quante storie… Insomma, cresci pensando di essere sbagliato, qualsiasi cosa tu faccia. E alla fine, nonostante addosso nessuno specialista ti metterà l’etichetta di Asperger o autistico, il marchio del tipo strano, di quello ‘diverso’ non te lo toglie nessuno. Vedete voi cosa è meglio.

Torniamo alla mia allieva S. e a sua madre. E agli abbracci. A me non piace essere abbracciato, ma proprio per niente. Anzi, a me piace essere abbracciato solo in determinate circostanze, da persone che conosco bene e se penso ci sia un motivo particolarmente importante per farlo. Non è qualcosa che riesca a fare spontaneamente quando incontro qualcuno per salutarlo, come fa la maggior parte della gente.

Dopo aver parlato arriva il momento dei saluti. Io, come al solito tremo al pensiero del bacetto rituale e spero di cavarmela con una semplice stretta di mano, ma la signora mi stupisce.

“Saluta il maestro. Dagli un bell’abbraccio, dai” ordina con tono dolce ma deciso alla figlia.

Io e S. ci guardiamo. Sembriamo due robot, e immagino che da fuori la scena sarà sembrata grottesca. Chiaramente nessuno dei due aveva la minima intenzione di abbracciare l’altro, eppure né io ne lei abbiamo avuto il coraggio di sottrarci a un ordine tanto perentorio. S. mi si avvicina come un automa a braccia aperte, io rimango più o meno impalato. Il contatto è ridotto al minimo indispensabile, un gesto meccanico, inutile ma a quanto pare necessario a placare il desiderio di normalità di un genitore nei confronti della propria figlia. Poi mi si avvicina lei, la mamma, per ‘salutarmi‘. La vedo aprire le braccia e a quel punto non resisto e le allungo la mano.

“Mi dispiace, ma non amo abbracciare le persone” le dico. Mi sento meglio, le do la mano e lei mi sorride.

“Sapesse cosa si perde” risponde. “Gli abbracci possono comunicare tanto, dovrebbe provare, sa, le farebbe bene…”.

Io sono rimasto immobile, sorridendo meccanicamente. Dovrei provare? Pensavo. Comunicano tanto, gli abbracci? Ma a chi? Perché a me davvero non comunicano altro che tensione. E credo che anche alla figlia non facesse poi tanto piacere, visto il modo innaturale, goffo e gelido di effettuare quell’esercizio richiesto per poter sembrare più normale.

Se solo le persone lì fuori, i cari neurotipici ogni tanto si domandassero a vantaggio di chi, spesso, ci richiedono di cambiare, di essere ciò che non siamo, forse staremmo tutti un po’ meglio.

Le cose, dipende sempre da dove si guardano. Il punto di vista è fondamentale  per la comprensione della realtà e, soprattutto, non esiste una realtà uguale per tutti. Quello che a te può comunicare calore e piacere, a me può trasmettere ansia e fastidio. Uno stesso gesto, uno stesso istante ma due realtà opposte, due punti di vista altrettanto validi. 

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