L’AUTISMO AI TEMPI DEL CORONAVIRUS. 2: Giustizieri da balcone e braccialetti azzurri

Disegno di mamma con bambino autistico che indossano un braccialetto di riconoscimento azzurro
                                    Immagine dal web

Il 20 marzo, il presidente del consiglio dei ministri spagnolo, Pedro Sanchez, ha aggiornato il Real Decreto 463/2020 che stabilisce lo stato di emergenza e l’isolamento obbligatorio per coronavirus, consentendo ad alcune categorie sociali, tra cui gli autistici, di poter uscire di casa nel rispetto delle norme di sicurezza contro il contagio.

Che gesto di civiltà, ho pensato, leggendo l’aggiornamento ufficiale del decreto. Confesso di essermi sentito più leggero all’idea di poter uscire a fare una breve passeggiata nei momenti di sovraccarico, quando l’alternativa è l’esplosione di un meltdown o la chiusura in uno shutdown dai quali uscirei devastato dopo giorni di blocco totale.

Anche perché, se per alcuni questa reclusione sta diventando insostenibile a causa della noia, per quelli come me che sono stati immediatamente convertiti in “smart workers” il carico di lavoro è triplicato e gli orari sono diventati sempre più flessibili fino a sfumarsi, rendendo la giornata intera una lunghissima sessione lavorativa intervallata da brevi pause.

Questo significa che io non ho la possibilità di ridurmi un vegetale inutilizzabile per due o tre giorni a causa di un sovraccarico cognitivo o di esplodere in una crisi distruttiva, che poi mi lascerà comunque fuori uso per un po’, come conseguenza di un sovraccarico sensoriale.

Essendo inoltre iperattivo ed estremamente ansioso, l’unico modo per me efficace di scaricare rapidamente la tensione è sempre stato l’attività fisica; anche solo una passeggiata veloce di mezz’ora, ma è necessario poter uscire, respirare aria fresca, stare in spazi aperti e muovermi, scaricare, stancarmi fisicamente. Quando avevo il laboratorio di costruzione di clavicembali, era talmente stancante fisicamente che riuscivo a scaricare direttamente sul lavoro molta della tensione accumulata, ma adesso con l’università, inchiodato in casa davanti a uno schermo, è tutto diverso.

Ebbene, io per qualche giorno ci ho sperato, eppure in più di una settimana ancora non sono uscito di casa perché ho paura. Sono terrorizzato dalle vedette di quartiere appostate sui balconi, delatori che trascorrono le loro giornate spiando i movimenti degli altri, urlando insulti e invocando a gran voce l’arrivo della polizia affinché arresti i trasgressori, spesso addirittura cimentandosi nel lancio di uova sui supposti criminali.

Uscire di casa per resettare il mio sistema nervoso sovraccarico, finendo invece per aggiungere altra ansia a quella già presente e avvicinandomi ancora di più all’esplosione, è troppo rischioso. Immagino già la scena: io che passeggio per le strade deserte guardandomi intorno terrorizzato e poi, all’improvviso, da un balcone cominciano a gridare contro di me.

Cosa accadrebbe, a me ma anche a molti altri autistici, in una situazione simile?

Probabilmente la prima reazione sarebbe di rispondere agli insulti, di spiegare che sono in regola, che posso uscire perché sono autistico. E qui prevedo due scenari, peccato che entrambi finiscano male.

In entrambe le ipotesi però la premessa è la stessa: i delatori non mi crederebbero, e continuerebbero a urlare attirando l’attenzione dei vicini che si accoderebbero felici ed entusiasti alla pubblica lapidazione verbale (che, come dicevo, qui a volte sfocia in lancio di uova). Badate bene che non è una esagerazione, ci sono resoconti sui giornali di madri o padri usciti con figli autistici e finiti nel tritacarne idiota dei giustizieri da balcone[1].

È doverosa adesso una parentesi per ribadire un concetto su cui insisto spesso e che a volte, superficialmente, è stato ritenuto quasi un inutile vezzo: quando dico che il linguaggio è fondamentale perché crea la realtà, e che se scegliamo con cura le parole possiamo contribuire a un cambiamento tanto in positivo quanto in negativo del mondo in cui viviamo, mi riferisco proprio a questo. Nel nostro caso, un uso scorretto del linguaggio ha portato alla creazione di una realtà doppiamente falsa.

In primo luogo falsa perché i continui riferimenti alla guerra, quella semiotica bellica di cui ho scritto in un articolo pochi giorni fa[2], hanno creato un pericoloso stato di allerta, una situazione in cui dei comuni cittadini si sentono in dovere e, peggio ancora, in diritto di spiare altri individui di cui non conoscono la storia, inscenando processi sommari che terminano con l’esposizione alla pubblica gogna dei supposti criminali.

Ci troviamo oggi in una situazione in cui l’idea di guerra o di battaglia contro il nemico invisibile, diffusa da una retorica poco lungimirante, ha sospeso lo stato di diritto perfino sui balconi. L’emergenza non vuole eccezioni e allora dai, sfoga la tua frustrazione sul prossimo senza porti domande, e chi sene frega della presunzione di innocenza, del giusto processo, di quei diritti civili tanto preziosi ma così fragili. Che poi gli stolti spioni non si rendono conto di quanto il loro comportamento, erodendo la civile e pacifica convivenza, abbia contribuito a creare uno stato di tensione e giustizia sommaria che alla prima occasione gli si ritorcerà contro come un boomerang.

La seconda distorsione della realtà che un uso superficiale del linguaggio ha contribuito a creare e a mantenere riguarda l’immagine dell’autistico. In diversi articoli ho scritto di quanto fosse rischioso usare parole ed espressioni che non descrivessero la realtà dell’autismo in modo corretto. Ogni volta qualcuno ha risposto che insomma, quanto sono pignolo, si vede proprio che sono autistico, troppo rigido, in realtà i fatti contano più delle parole.

Ecco, adesso le parole ci stanno mostrando quanto questo modo di pensare (quindi, di conseguenza, di agire) sia dannoso. Le parole “bambino”,autismo“, “disabile“, insieme a espressioni come “non verbale” “malattia da combattere“, “piccoli angeli speciali”, “famiglie distrutte” et similia, hanno creato lo stereotipo del bambino autistico. Questo linguaggio scorretto a volte usato in modo superficiale, altre con intenzionalità e fini meno nobili, ha costruito una realtà fittizia che non coincide con la verità, e cioè che l’autismo sia una condizione esclusivamente infantile[3].

In questa realtà alternativa, se io uscissi di casa a passeggiare in un momento di sovraccarico, pure avendone il diritto per legge, verrei quasi sicuramente preso di mira dai cecchini sui balconi. A nulla servirebbe spiegare che sono autistico, perché già normalmente la gente non crede che un adulto che parla possa esserlo, figuriamoci adesso che siamo in “guerra” e bisogna stanare il nemico a ogni costo.

La realtà, quella vera, in cui i bambini autistici crescono e diventano adulti autistici, non viene presa nemmeno in considerazione dalla maggioranza della popolazione. Grazie a un uso improprio del linguaggio sono stati veicolati due concetti assolutamente falsi: l’idea che solo i bambini possono essere autistici, e quella che l’autismo sia una malattia, errore che lascia immaginare immediatamente l’idea di cura.

Nel confuso e disinformato immaginario collettivo, gli autistici sono quindi esclusivamente bambini affetti da una terribile malattia. Che fine facciano questi bambini, non se lo domanda nessuno. Anzi, no, alcuni hanno la risposta: guariscono, o migliorano (in base a quale criterio migliorino, poi, questo non si sa). E vi garantisco che c’è molta gente che ci crede, anche perché questa distorsione della realtà operata da un linguaggio scorretto è sostenuta dai mezzi di comunicazione: non ho letto un solo articolo riguardante l’eccezione al decreto legge in cui venissero nominati gli autistici adulti, men che meno gli autistici adulti di livello 1 con buone capacità verbali, cioè quelli come me che a prima vista non sembrano autistici, ma che le caratteristiche e le difficoltà della condizione le portano ugualmente nascoste dentro.

Tornando alla nostra ipotetica passeggiata per calmare un sovraccarico, mi troverei quindi coinvolto in una situazione altamente stressante che scatenerebbe una reazione fuori controllo, e parlo per esperienza sia personale che indiretta. Probabilmente comincerei ad alterarmi, cercherei di spiegare che sbagliano, che io SONO veramente autistico, che i bambini autistici crescono ecc., e allora, passato il punto di non ritorno, potrebbero verificarsi le due ipotesi di cui parlavo all’inizio.

La prima è che scapperei via, probabilmente piangendo come un disperato, perché il pianto è per me una valvola di sfogo fenomenale ma anche un altro motivo di scherno e stigma sociale. Scapperei ma in condizioni pietose, e allora mi domando: sarei capace di tornare a casa? La risposta è che non lo so, perché in situazioni di crisi analoghe ma senza l’aggravante dello stato di guerra, ho avuto grosse difficoltà e necessità di aiuto.

La seconda ipotesi è che, invocata dai giustizieri da balcone (una volta come oggetti di decorazione kitsch si usavano i nani da giardino, oggi abbiamo i giustizieri da balcone) arrivi la polizia. Tranquilli, qui in Spagna è successo a diversi genitori con i figli autistici, quelli che quindi rientrano nello stereotipo della “malattia esclusivamente infantile”, ed è stato difficile far comprendere ai delatori sui balconi certe necessità, soprattutto quando i ragazzini erano ad alto funzionamento, cioè apparivano “normali” a chi ha informazioni sbagliate ma allo stesso tempo sente il bisogno irrefrenabile di dare fiato alla bocca.

Nella nostra seconda ipotesi quindi l’arrivo della polizia sarebbe un rischio assolutamente da evitare. Siamo sicuri che gli agenti sarebbero preparati a gestire una situazione del genere? Potrei infatti cercare di spiegarmi ma non essere creduto, gli insulti dai balconi aumenterebbero (ho assistito a scene del genere, purtroppo) e i miei nervi cederebbero pericolosamente. Sicuramente avrei un certificato in tasca che dichiara la mia condizione ma, nel caos del momento, potrei non pensare di prenderlo, o ricordarmene quando fosse troppo tardi, una volta esploso in un meltdown terribile.

A quel punto probabilmente sarei in manette, portato via tra gli applausi dei fascio-cecchini nascosti sui loro balconi. Pensate sia esagerato? Allora leggete un po’ l’articolo, guardate il video[4], e capirete quanto quello dell’inadeguata preparazione delle forze dell’ordine che arrestano autistici anche minori d’età in meltdown sia un problema reale.

Qui in Spagna, come ho già scritto in un altro articolo, suggeriscono agli autistici, anzi ai genitori di “bambini” autistici, visto che noi adulti autistici per la stampa non esistiamo, di indossare qualcosa di blu per segnalare che, ehi, il bambino è autistico, può uscire, non lo insultare! Ora, a parte la mia avversione per il blu associato all’autismo in quanto simbolo scelto da un’associazione (Autism Speaks) che non permette l’autorappresentanza degli autistici, ma siamo proprio sicuri che i delatori da balcone siano a conoscenza del suo significato?

C’è poi una questione morale che non è meno preoccupante. Io non sono sicuro che una società che non concede il beneficio del dubbio e in cui in poco tempo si è instaurata la dittatura del giudizio sommario e la criminalizzazione di chiunque apparentemente non rispetti le regole, sia una società civile. Che comunità è quella in cui, per evitare di essere messo alla gogna o dichiarato fuorilegge quando non lo sei, devi esporre dei simboli o segnali di riconoscimento col rischio di essere poi pubblicamente stigmatizzato? Che fine fa la mia libertà di non far sapere ai miei vicini che sono autistico?

Il linguaggio rappresenta le fondamenta su cui si costruiscono le azioni, nessuno può negarlo, e l’uso superficiale o volutamente distorto di un mezzo tanto importante e potente è inammissibile anche in situazioni di emergenza, soprattutto perché dalle emergenze poi si esce, e una volta fuori rimane la realtà creata dalla retorica dell’eccezionalità, una realtà fatta di diffidenza, individualismo e sospetto.

Tornando all’importanza del linguaggio nella descrizione dell’autismo, anche qui mi preoccuperei un po’ di più del messaggio che viene veicolato alla società. Forse è il caso di lasciare più spazio a noi autistici, i diretti interessati, e riconoscerci il diritto ad autorappresentarci. E non crediate che sia una cosa tanto scontata, perché se leggete gli articoli e le interviste sull’autismo, vedrete che il nostro contributo è ancora paradossalmente minimo e spesso relegato al ruolo di pura aneddotica.

Con tutto il dovuto rispetto per le visioni dell’autismo che, seppure da molto vicino, non lo vivono da dentro, nel proprio corpo, credo che sia fondamentale riconoscere l’importanza vitale del racconto in prima persona della neurodiversità in quanto unica fonte di conoscenza di prima mano. Tutto il resto, ma proprio tutto, può solo descriverla dal punto di vista dell’osservatore, vicino quanto vi pare, ma pur sempre osservatore e non protagonista.

Il punto di vista degli autistici in grado di comunicare, a prescindere dalla modalità utilizzata (tranne la comunicazione facilitata, che è dimostrato essere fuffa)[5], è l’unico che può realmente spiegare cosa ci accada dentro, per quali motivi a determinate situazioni reagiamo in certi modi, cosa proviamo quando veniamo costretti a diventare ciò che non siamo solo per compiacere una società incapace di convivere con la diversità; è l’unica possibilità di creare un cambiamento culturale nei confronti della neurodiversità.

Grazie a un imbarbarimento sociale spero solo temporaneo e a una narrazione dell’autismo non rispondente alla verità io non uscirò di casa, anche se legalmente in diritto di farlo, perché so che potrei andare in contro a problemi ancora maggiori di quelli che una breve passeggiata sicuramente risolverebbe, e pagherò le conseguenze di questa impossibilità sul lavoro e sulla salute. Molte persone però non potranno fare a meno di uscire per controllare situazioni di malessere più estremo generate dall’isolamento forzato in casa. Tra questi ci saranno anche tanti bambini accompagnati da un genitore, alcuni di questi bambini a prima vista non sembreranno autistici, perché l’immagine che la gente ha dell’autistico è limitata e non abbraccia tutte le possibili manifestazioni di questa condizione.

E, a prescindere da quanto l’autismo sia visibile o meno, trovo ripugnante la sola idea di dover giustificare una necessità garantita dalla legge indossando foulard, braccialetti e magliette blu o qualsiasi altro simbolo a causa del rigurgito di un passato buio che sembra tornare con sempre maggiore prepotenza.

NOTE
[1] https://www.lavanguardia.com/vida/20200329/48134126119/panuelo-azul-autistas-chivatos-balcones.html
[2] https://www.fabrizioacanfora.eu/la-semiotica-di-guerra-e-limportanza-di-rimanere-umani-e-di-striscio-lattenzione-per-gli-autistici/
[3] STEVENSON, J. A., HARP, B. & GERNSBACHER, M. A. (2011). Infantilizing autism. Disability Studies Quarterly, 31(3).
[4] https://www.scotsman.com/news/people/scottish-child-autism-removed-police-van-after-meltdown-primary-school-1415302
[4] https://www.dailymail.co.uk/news/article-7477755/Father-shares-video-autistic-son-11-cuffed-police-car-meltdown-school.html
[5] Eberlin, M., McConnachie, G., Ibel, S. et al. Facilitated communication: A failure to replicate the phenomenon. J Autism Dev Disord 23, 507–530 (1993).

L’immagine è stata presa dal web.

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