BENEDETTA AUTORAPPRESENTANZA. L’autisme à la neurotypique.

Prima di tutto vorrei precisare che questo post sarà pieno pieno di precisazioni col fine di evitare fraintendimenti e commenti inutili.

Parliamo di autorappresentanza, quel diritto che ogni individuo dovrebbe poter esercitare e che prevede la possibilità di parlare in rappresentanza di se stessi e, eventualmente, della categoria sociale a cui si appartiene.

Comincio col chiarire due cose facili facili:

– a noi autistici non piacciono alcune cose che invece alla maggioranza neurotipica piacciono molto.

– a noi autistici, d’altra parte, piacciono determinate cose che alla maggioranza neurotipica non piacciono affatto.

Forse il verbo piacere però qui non è proprio corretto, perché in molti casi si tratta di necessità, anzi, per essere ancora più precisi, di cercare di comportarsi nel modo più naturale secondo le proprie caratteristiche, necessità e aspirazioni. In breve, ciascuno, a prescindere dal proprio neurotipo, cerca di assecondare la propria natura.

Agli autistici, in generale, (notate la precisazione: IN GENERALE) non è congeniale la socialità chiassosa ed estremamente fisica che invece, sempre in generale, è estremamente naturale per i neurotipici. Questo ovviamente può non essere vero per tutti, anche se per molti di quegli autistici a cui piace il contatto fisico è fondamentale poter decidere se e quando questo debba avvenire, e non subirlo come se non avessero una volontà.

L’affermazione di poco fa, che gli autistici in maggioranza non funzionano in contesti sociali chiassosi, caotici e molto fisici, è una generalizzazione che ritrae quella che è una caratteristica maggioritaria di questo particolare gruppo sociale. Ora, per favore, non ve ne uscite con affermazioni come: «Non puoi generalizzare così, questi sono stereotipi, a mio figlio piace essere abbracciato…» perché, nonostante sicuramente sarà vero, vuol dire che non avete compreso il significato di questa generalizzazione.

In particolare, vi invito a riflettere sul fatto che la diagnosi stessa di autismo si basa su delle generalizzazioni nate dall’osservazione del comportamento: i criteri diagnostici. Basta leggere questi criteri per rendersi conto che non tutti rispecchiano in modo esatto le descrizioni di ciascuno di essi (io, ad esempio, non ritengo di avere una “totale mancanza di iniziativa nell’interazione sociale reciproca” come al criterio A o di fare un “uso degli oggetti stereotipato” come al criterio B).

Quindi, per evitare che poi mi vengano mosse le solite accuse che vengono fatte agli autistici che parlano di autismo, ribadisco che sì, ogni autistico è diverso dall’altro, che non voglio spacciare stereotipi per verità né parlare a nome di tutti gli autistici del mondo ma che, da autistico che oltre tutto studia l’autismo e lavora con autistici di ogni livello e con diverse comorbidità, in questo momento farò uso di alcune generalizzazioni per descrivere una specifica realtà nel suo insieme.

Tutta questa lunga premessa perché, a ridosso del famigerato 2 aprile, giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, trovo che la tanto auspicata autorappresentanza degli autistici nel descrivere la propria condizione sia vista ancora con sospetto da una buona parte (che non vuol dire “tutto”) del mondo neurotipico.

Noi autistici, paradossalmente, dobbiamo guadagnarci il diritto di parlare di noi stessi, cosa che in un mondo un minimo coerente e razionale sarebbe paradossale, ma nella società in cui viviamo è la norma. Lo so che sono concetti che ho già espresso, ma proprio per questo continuo a soffrire di gastrite quando vedo che il messaggio in alcuni ambienti proprio non riesce a passare: CHIEDETE AGLI AUTISTICI PRIMA DI DECIDERE COSA SIA GIUSTO PER LORO.

Da cosa nasce questo post insofferente? Dal fatto che io (e molti altri come me, ci ho parlato personalmente) speravo che quest’anno, a causa della situazione estremamente spiacevole causata dal coronavirus, non ci sarebbero state le solite manifestazioni in cui l’autismo veniva trattato dai neurotipici “à la Neurotypique”.

Negli anni scorsi non ho mai partecipato a nessuna manifestazione a cui sono stato invitato perché le attività proposte, o il linguaggio utilizzato per rappresentare l’autismo, erano tutto tranne che corrispondenti alla realtà autistica. Quello a cui si assiste ogni anno in questa giornata, che per molti autistici è letteralmente un incubo, è l’invasione dei media con la visione neurotipica dell’autismo. Il messaggio che continua a passare è quasi sempre che noi autistici ci comportiamo in un modo ma che, se ci aiutano dall’esterno a smettere di essere noi stessi, possiamo diventare un po’ più “normali”.

Ovviamente anche questa è una generalizzazione, è vero che non tutte le realtà sono uguali e che non tutte le manifestazioni del 2 aprile rispecchiano questi canoni, ma mi sarà permesso, in quanto autistico, esprimere qualche perplessità quando persone che non hanno idea di cosa significhi percepire, elaborare, vivere la realtà da autistico sulla propria pelle, parlano di me, esprimono giudizi su di me (non direttamente, ma come appartenente a una categoria), si arrogano il diritto di farci apparire come esseri difettosi, altre volte come creature che, nonostante alla fin fine siano una collezione di deficit, hanno dei superpoteri in qualche area particolare, o a volte siamo semplicemente dei disabili da compatire. Scegliete voi, che tanto va quasi sempre a finire così.

Queste riflessioni ritornano ogni anno nei giorni precedenti al 2 aprile. Quest’anno, a scatenare il solito mal di stomaco, è stato il messaggio di un’amica autistica che mi ha inviato un video. Ora, poiché io sono una persona corretta e condanno le pubbliche gogne e qualsiasi forma di bullismo, il video non lo mostrerò, né dirò chi lo realizzato e addirittura mi spingerò a dire che, tutto sommato, vanno perdonati perché non sanno quello che fanno.

Il problema del video è principalmente uno: promuove un’iniziativa per la giornata mondiale dell’autismo chiaramente pensata da neurotipici per neurotipici, mostrando di sbattersene allegramente di tutto quello che la comunità autistica, non solo in Italia, prova da anni a spiegare, a partire dalla terminologia che continua a essere utilizzata passando per i simboli e le modalità.

Nel video infatti viene usato un linguaggio che in inglese viene definito “person-first”. Questo linguaggio tende a separare la persona dalla condizione (bambini “con autismo”) mettendo in risalto la persona, quando la maggioranza di noi preferisce una terminologia che al contrario non separi l’individuo dalla propria condizione (in inglese “identity first”), come quando io mi definisco “un autistico”. Il contrario, cioè definirmi una persona “con” autismo, suggerirebbe che ci sia qualcosa di “sbagliato” in me, qualcosa che io ho addosso (con) e che può essere eliminato (se avete qualche problema con la mia attenzione al linguaggio, suggerisco di leggere tutti i vari post in cui spiego perché invece le parole sono tanto importanti nella determinazione delle azioni, della politica e dell’orientamento della società  qui, qui).

Seconda cosa, il colore blu. Faccio una semplice considerazione: se ormai è chiaro a tutti che questo colore è stato collegato all’autismo da un’associazione che la stragrande maggioranza (maggioranza non significa totalità, chiaro?) della comunità autistica (gli autistici in prima persona, non amici e parenti) vede come il demonio perché ci tratta come creature da riparare e non ci permette di autorappresentarci al suo interno (e parlo ovviamente di Autism speaks), ma perché continuare a usarlo, il blu, quando in tanti proponiamo alternative esteticamente anche più interessanti? Ecco, per quante spiegazioni abbia ricevuto, nessuna che abbia mai risposto in modo esauriente alla domanda di sopra.

E, dulcis in fundo, l’attività che il video propone per il 2 aprile. Dal momento che purtroppo (secondo loro) non si sarebbero potuti riunire in piazza, il video istiga a imparare una coreografia, tra l’altro orribile, da registrare in video e inviare. E indovinate sulle note di quale canzone? Blue, degli Eiffel 65. Il colpo di genio, la ciliegina sulla torta, o forse la beffa finale, non lo so.

Quando ho visto il video ho provato in successione un moto di nervosismo, una ribollire di rabbia, poi il solito mal di stomaco, e infine una pacata rassegnazione. In quanto autistico che si batte pubblicamente per il diritto di autorappresentanza della categoria a cui appartiene, in quanto neuroatipico che ci mette la faccia e si espone pubblicamente cercando di spiegare al mondo neurotipico come riuscire a essere più inclusivo, ad accogliere le differenze, ad ascoltare la voce di chi viene etichettato come difettoso quando è semplicemente diverso, mi sono sentito umiliato.

Quel video, come tante altre iniziative simili, è stato per me umiliante e triste perché ha dimostrato in un colpo solo che tanta fatica per spiegare l’importanza del linguaggio nella creazione di una cultura inclusiva è sprecata. Mi ha innervosito perché per l’ennesima volta, a parlare di autismo e a chiedere l’adesione alla giornata mondiale dell’autismo, non erano autistici ma TUTTE operatrici neurotipiche, utilizzando una terminologia discutibile e una simbologia (il blu) ancora più discutibile (attenzione, ho scritto “discutibile”, non “sbagliata”). E mi ha fatto arrabbiare perché quell’attività (ballare una coreografia oscena, riprendersi in video e mandarlo per essere esposti al pubblico ludibrio) è parecchio difficile che sia tra le favorite di un autistico, o almeno questo è il modesto parere di un autistico, per quello che può valere…

L’amica che mi ha inviato il video, mentre ne discutevamo, mi ha scritto: “Non pensano alla dignità delle persone autistiche (perché se sei autistico si dà forse per scontato che la dignità non ti riguardi? boh), ma basta che se ne parli. […] Che si balli. Per cosa, non si capisce. Bisognerebbe chiederglielo.

Ecco. Allora io mi domando: perché non realizzare iniziative che finalmente coinvolgano gli autistici anche nell’organizzazione e nella promozione, dando loro visibilità? Perché non coinvolgere gli autistici nella redazione dei messaggi che si vogliono dare al mondo, contribuendo così alla creazione di un linguaggio che ci rappresenti realmente, smettendo di far passare messaggi che ci mostrano sempre e solo attraverso gli occhi dei neurotipici?

Perché, finalmente, non accettare il fatto che molti di noi hanno la possibilità di comunicare in modo comprensibile, ciascuno utilizzando i mezzi più adatti alle proprie caratteristiche, e cominciare ad ascoltare quello che abbiamo da dire su di noi? Perché non comprendere che abbiamo desideri e aspirazioni che non necessariamente coincidono con quelli della maggioranza, e che non per questo siamo difettosi?

Quest’anno l’autismo non sarà in piazza ma verrà rappresentato online, una modalità di espressione che molti di noi utilizzano e preferiscono già da tanto tempo prima che diventasse l’unica possibilità di comunicazione sociale. Personalmente mi auguro che tanti autistici come me riescano a far sentire la propria voce, a spiegare le proprie ragioni, a far comprendere che diverso non vuol dire difettoso, che in troppi casi la disabilità è figlia dello scontro con una società che impone dei criteri di ammissione basati sull’esclusione delle differenze.

Quest’anno, come ogni anno, io rimarrò a casa, non ballerò, non mi tingerò di blu né diventerò una persona “con” autismo, visto che io l’autismo non posso né voglio togliermelo di dosso. Se davvero volete celebrare la giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, quest’anno, date voce agli autistici.

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