Autismo, autorappresentanza e uso improprio della diagnosi

In vari articoli ho parlato di quanto la diagnosi, almeno nel caso dell’autismo, possa essere un aiuto importante per capire molti dei motivi alla base di comportamenti che altrimenti continuerebbero ad apparire strani, fuori luogo, a volte folli. Una diagnosi, se usata in questo senso, è fondamentale per poter gestire quelle difficoltà frutto della condizione autistica e, in larga parte, dell’interazione dell’autistico con una società che non sempre riesce a comprendere e accettare la diversità.

Fin qui tutto bene. Ma ho anche scritto sempre che, la diagnosi, va usata bene, altrimenti diventa controproducente. E questo accade quando all’autistico vengono negati due diritti fondamentali, quello di autorappresentanza e di autodeterminazione.

La diagnosi è un’etichetta, è il frutto di una generalizzazione, della riduzione in categorie che la nostra mente tende a fare per comprendere la realtà in cui è immersa.

Tutti raggruppiamo oggetti in categorie come gli alberi, le automobili, i tavoli, le scarpe, e lo facciamo anche con gli oggetti interni come le emozioni: gioia, rabbia, dolore.

Se ci riflettete un attimo, ciascuna di queste categorie comprende oggetti che tra loro possono avere forme e caratteristiche estremamente diverse. Un abete è diverso da un platano o da una mangrovia, eppure sono tutti alberi, una stilografica antica è diversa da una biro, ma rientrano entrambe nella categoria “penna”. Lo stesso vale per le emozioni; la rabbia, ad esempio, può manifestarsi con un’espressione di gelo mentre si pensa a un piano per fare fuori il capo che ci ha appena umiliato , ma anche con un’esplosione violenta, urla e un atteggiamento aggressivo, o addirittura col pianto, o con un sorriso che nasconde intenzioni omicide. Eppure è sempre rabbia.

Ridurre in categorie implica come dicevo una generalizzazione, per cui un certo numero di oggetti anche differenti vengono accomunati da una o più caratteristiche che condividono, mentre le differenze vengono lasciate fuori. È un processo mentale che, però, è soggetto all’influenza della cultura, che muta nel tempo e a seconda dell’area geografica in cui ci si trova.

Cosa c’entra tutto questo con il diritto di autorappresentanza e autodeterminazione nell’autismo? C’entra eccome, perché uno degli usi errati della diagnosi comprende proprio la negazione di questi diritti all’individuo etichettato come autistico. In pratica, la diagnosi sostituisce la persona, che smette di essere un essere umano con delle necessità, aspirazioni e sentimenti individuali, e diventa il prototipo della categoria a cui appartiene.

Non è raro che riceva messaggi da autistici o da genitori di persone autistiche che lamentano questo problema. In pratica, quello che a volte accade è che il terapista o l’insegnante, insomma il professionista a cui viene affidato l’autistico, decide che quella persona DEVE corrispondere a degli standard che esistono esclusivamente nella teoria. Quella generalizzazione che ha portato all’etichetta diagnostica, e che dovrebbe essere abbandonata una volta stabiliti i motivi delle particolarità di una persona per concentrarsi sulla singolarità di ciascuno, diventa invece ciò che la persona, agli occhi del neurotipico, dovrebbe essere.

Questo accade probabilmente perché il mondo autistico e quello neurotipico parlano fondamentalmente due linguaggi differenti, non del tutto estranei e con alcuni punti di contatto, ma comunque differenti. E se il linguaggio della maggioranza viene giudicato l’unico possibile, allora nasce il problema, perché il terapista, l’insegnante, il medico o chiunque in quel momento si occupi di una persona autistica, non riterrà necessario provare a tradurre le necessità, le aspirazioni e le idee del neuroatipico, limitandosi a constatare l’incomprensibilità del suo linguaggio.

Autorappresentanza significa avere la possibilità di parlare per sé, di rappresentare se stessi con mezzi e le modalità che permettano di esprimere le proprie idee, ed è fondamentale per poter arrivare all’autodeterminazione, alla possibilità di decidere della propria vita.

Questo discorso vale per la disabilità e la diversità in generale ma, visto che mi occupo di autismo, in particolare qui mi riferisco alla necessità di ascoltare gli autistici. A prescindere dalle difficoltà che un autistico possa avere nel comunicare e interagire con la società, a prescindere anche dalle possibilità cognitive, chi gli sta vicino ha il dovere di ascoltare quelli che possono essere i suoi desideri e aspirazioni, trovare il modo di permettere all’autistico di esprimersi, dargli la dignità che qualsiasi individuo merita.

Nei messaggi che ricevo, spesso mi viene raccontato di come il bambino o l’adulto autistico non venga ascoltato, di come i suoi desideri vengano frustrati da operatori che li ritengono poco importanti o che nemmeno provano a domandarglieli, e decidono al posto loro cosa sia meglio, cosa debbano desiderare, quali attività svolgere e in che modo.

Io invito sempre chi sta dall’altra parte a fare un gioco di ruolo e mettersi nei panni dell’autistico. Provate a immaginare, ad esempio, di avere una diagnosi di autismo che potrebbe aiutarvi a capire tante cose, a migliorare la vostra posizione nella società riducendo il carico di fatica e sofferenza che deriva dalla non comprensione di alcuni vostri comportamenti. Immaginate, però, che poiché avete una diagnosi di autismo, la persona che vi segue decide che dovete corrispondere ai canoni dell’autistico dettati dai neurotipici, e che non valga la pena ascoltare cosa avete da dire, perché tanto non lo sapete.

Mettiamo che abbiate una particolare facilità con la creazione di storie, e vorreste poter scrivere. Non è che si debba diventare tutti scrittori, semplicemente desiderate poter utilizzare il tempo libero per scrivere le vostre storie e invece, senza che nessuno ve lo abbia domandato, vi ritrovate a fare un’infinità di attività e terapie che non hanno niente a che vedere con quella che è la vostra aspirazione. Anzi, probabilmente alcune di queste attività e terapie, essendo state progettate da neurotipici per rendervi più “normali”, vi causano ulteriore frustrazione e dolore.

Provate anche a spiegarvi ma non vi si dà ascolto, magari perché avete difficoltà con la comunicazione verbale ma nessuno ha pensato di fornirvi alternative, insistendo solo sullo sviluppo delle attività verbali perché le persone “normali” devono parlare. Oppure non vi ascoltano semplicemente perché siete autistici, e si sa, mica siete tanto a posto con la testa.

La diagnosi è uno strumento fondamentale se e solo se utilizzato puramente nell’interesse dell’autistico. Altrimenti, diventa un ulteriore mezzo di emarginazione ed esclusione, un generatore di frustrazione. Ricordiamo sempre che dietro a ogni etichetta diagnostica esiste una persona con i suoi desideri, le sue aspirazioni, sentimenti, pensieri e inclinazioni. Come al solito, potrà apparire banale ma vi garantisco che sono moltissimi i casi in cui una banalità del genere non viene nemmeno presa in considerazione.

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