PENSIERO VISIVO E TRADUZIONE VERBALE

Domani è Pasqua, per molte persone sarà una giornata dal significato estremamente profondo, vivranno ciò che per il cattolicesimo è il momento contemporaneamente più straziante e carico di gioia della narrazione evangelica, quello di un’ingiusta condanna a morte e di una resurrezione che dà speranza ai più deboli, agli oppressi, ai giusti.

Per tante altre persone la giornata di domani sarà l’occasione per un pranzo speciale; fino all’anno scorso la domenica di Pasqua era una giornata di festa da trascorrere in compagnia, e poi l’irrinunciabile scampagnata del lunedì di pasquetta con gli amici o la famiglia, inchiodati per ore nel traffico, era d’obbligo. Ma quest’anno niente riunioni né gite fuori porta, tutti barricati in casa a mangiare come se non ci fosse un domani.

Poi ci sono quelli come me, che trovano la storia della morte e resurrezione un simbolo estremamente interessante e radicato nella nostra e in tante altre culture, che amano il profumo della pastiera e lo associano alla primavera, ma che hanno sempre subito pranzi di Pasqua e scampagnate come un male a volte necessario a evitare l’emarginazione.

Detto questo, non è della giornata di domani che volevo scrivere, e sorprendentemente nemmeno delle riunioni familiari e delle insopportabili consuetudini sociali a cui bisogna sottomettersi per evitare di essere marchiati come asociali, strani, privi di sentimenti. No, oggi vorrei scrivere dell’importanza che la lettura dei vangeli ha avuto sulla mia abilità di comunicare.

Con la religione istituzionale ho sempre avuto seri problemi fin da bambino. Andavo a messa perché costretto da mia nonna che viveva con noi ed era estremamente credente. Io adoravo mia nonna, ma vivevo quell’obbligo della domenica mattina come un sopruso, l’ennesima violazione della mia libertà. Ovviamente non avevo scelta per cui ogni domenica andavo in chiesa sfidando il terrore della folla, gli sguardi dei fedeli (che non vedevano mai i miei genitori, povera creatura tirata su da senzadio), l’odore dell’incenso che mi faceva starnutire per il resto della giornata e quelle canzoni orribili cantate in modo sguaiato e stonato da un gruppo di ragazzi con le chitarre. Gruppo dal quale mi sedevo il più lontano possibile, vista la propensione a terrorizzare chiunque mostrasse un accenno di timidezza costringendolo a sedere tra loro, a cantare quelle canzoni insulse e soprattutto a esprimere una socialità obbligatoria che non potevi rifiutarti di condividere.

Fui anche costretto a frequentare il catechismo, ovviamente non dai miei che in chiesa ci entravano solo se costretti da matrimoni e funerali, ma dalla mia amata nonnina. E al catechismo scoprii la lettura del vangelo, cosa che mi lasciò perplesso fin da subito perché l’insegnante ci spiegava quelle storie, le parabole e gli eventi narrati, in modo estremamente letterale. Ora, è vero che spesso noi autistici prendiamo alla lettera il significato delle espressioni metaforiche, ma è altrettanto vero che in molti casi abbiamo una visione estremamente razionale della vita, scientifica direi.

Così, durante le noiosissime lezioni di catechismo ero visto come l’incarnazione del demonio per le domande irriverenti sulla reale possibilità di trasformare l’acqua in vino, moltiplicare pani e pesci o camminare sulle acque e resuscitare i morti. Tant’è che per non dovermi sopportare in secondo corso l’insegnante mi bocciò, utilizzando come pretesto le assenze causate dall’infarto di mia nonna, evento che aveva sconvolto in quel periodo tutta la famiglia. E così sono diventato l’unica persona di cui abbia notizia che è stata bocciata al catechismo.

Preciso, per evitare equivoci, che ho sempre nutrito il più profondo rispetto per chiunque la pensi diversamente da me, anche sul tema della religione e della fede. Il mio problema però riguarda le risposte che dà la religione, delle risposte dogmatiche a domande profonde, e io non ho mai potuto accettare una risposta che non potessi verificare in qualche modo. Mia madre mi raccontava che il mio periodo dei perché, quello in cui i bambini massacrano i genitori domandando il perché di qualsiasi cosa, è stato un incubo dal quale i miei temevano di non uscire vivi.

Come ho scritto tante volte, il periodo dell’adolescenza è stato forse il più difficile e tormentato della mia vita. La solitudine era totale, non avevo amici ma in compenso ero assorbito da due passioni troppo profonde, che erano viste come una distrazione dai miei doveri di studente, figlio e fratello; non capivo il perché della maggioranza delle cose che accadevano nella mia vita, soprattutto le cose che avevano a che fare con gli altri, ed entrai così in una fase di mutismo che ricordo con dolore.

Mio padre parlava, domandava, e io zitto. La stessa cosa a scuola, scena muta, soprattutto quando si trattava di spiegare i motivi di una scelta o un’opinione personale su un argomento qualsiasi: non trovavo le parole, solo balbettii, sguardo a terra e silenzio.

Il problema, visto col senno di poi, era proprio nell’incapacità di capire il mondo intorno a me. Tutto cambiava a gran velocità, i coetanei crescevano e le loro relazioni si facevano ogni giorno più complesse, le richieste della società erano pressanti, schiaccianti, e io semplicemente non avevo più parole. Quelle che mi venivano in mente si bloccavano prima di uscire dalla bocca per timore che fossero sbagliate, perché avevo imparato con l’esperienza che non riuscivo a capire quando era corretto dire cosa, in che modo, perché. Ricordo che in quel periodo l’unico momento in cui non mi ponevo il problema di sbagliare, non solo nella pratica ma anche concettualmente, era quando suonavo. E così trascorrevo le mie giornate al pianoforte.

Poi conobbi in villeggiatura un ragazzo di poco più grande di me, lui suonava il flauto traverso, amava la musica barocca ed era l’unica persona che sembrava interessarsi realmente a quello che avevo dentro senza giudicarmi per il modo goffo in cui provavo a esprimermi. Non era particolarmente gentile nei modi, era asciutto, privo di inutili convenevoli ma sempre estremamente corretto. Lui era essenziale in ogni aspetto della comunicazione: dall’abbigliamento, sempre uguale e molto semplice, ai gesti, al modo di suonare e concepire l’esecuzione musicale, all’uso del linguaggio verbale.

La sua chiarezza di pensiero, la semplicità con cui riusciva a spiegarmi le cose più difficili come concetti filosofici, etici e morali, corrispondeva perfettamente alla mia modalità di funzionamento cognitivo.

E così ogni pomeriggio di agosto, per qualche anno, quando tutti riposavano io andavo a casa sua a imparare. Leggevamo libri e li commentavamo, lui mi poneva moltissime domande, io nella maggior parte dei casi rimanevo muto, a volte azzardavo risposte dicendo sciocchezze nel tentativo di dire la “cosa giusta”, come mi avevano abituato a fare gli altri.

Ma lì era differente, non esistevano risposte preconfezionate, a volte le risposte non c’erano affatto e bisognava scavare a lungo solo per cominciare a trovare qualche indizio. Era un lavoro di archeologia interiore che ricordo con amore, la ricerca di pezzettini da mettere insieme per formare un’immagine, un’idea.

Finché un giorno non cominciammo a leggere il vangelo. Lì per lì non capii il perché, al catechismo mi era sembrato un libro scritto con un linguaggio troppo semplice e pieno di storie inverosimili. Eppure da quelle letture estive ho imparato a parlare di nuovo, a comunicare le mie idee in modo semplice e diretto.

Dopo aver appreso che la chiarezza è la prima regola per spiegare e spiegare le cose, ho compreso il potere delle immagini. Guardando a quei pomeriggi con la consapevolezza che oggi ho di certe dinamiche del mio pensiero, un pensiero estremamente visivo, riesco finalmente a spiegarmi perché il livello di comprensione e di comunicazione con gli altri fosse pari a zero mentre con lui era così profondo: per comunicare usava delle immagini concrete.

Dal vangelo mi insegnò a cogliere due tecniche fondamentali: la prima è che il modo migliore per insegnare qualcosa è esempio, e la seconda è l’uso di parabole e allegorie concrete, costituite da immagini facilmente visualizzabili e semplici. Parabole la cui morale, tra l’altro, veniva quasi sempre spiegata alla fine, per fugare ogni possibile dubbio.

Durante quelle letture ho sviluppato l’amore per la semplicità e ho appreso il trucco per comunicare i miei pensieri: descrivere le immagini che compaiono nella mia mente come se stessi descrivendo una fotografia a un cieco.

Ogni tanto, quando sento che i pensieri mi si attorcigliano nella testa, quando il mondo di fuori spinge con prepotenza per entrare a scombussolare le cose, riprendo quei libri e ne leggo qualche passaggio, ne ammiro la potente semplicità con cui le immagini riescono a comunicare pensieri e insegnamenti, l’umiltà nell’uso di un linguaggio semplice e comprensibile a chiunque. Così ritorno coi piedi per terra, ricomincio a vedere i miei pensieri con chiarezza e con altrettanta chiarezza li traduco in parole o in musica.

Lasciate che ciascuno sia libero di utilizzare i mezzi che sente più naturali per comprendere il mondo ed esprimere ciò che ha dentro. Se io avessi insistito a fare come mi dicevano gli altri probabilmente oggi non riuscirei a scrivere o a parlare con tanta facilità, a raccontare i miei pensieri. Io sono stato fortunato perché ho incontrato chi mi ha insegnato a cercare le risposte, a non accontentarmi di quella che gli altri mi rifilavano come unica modalità di pensiero ed espressione possibile, ma tanti autistici non hanno questa fortuna. A molti viene imposto un unico modello comunicativo, quello verbale e neurotipico, che non necessariamente funziona con tutti. E allora mi domando: quanto è importante la possibilità di comunicare rispetto alla modalità con cui si comunica?

Costruiamo una cultura della neurodiversità, rispettiamo le differenze, perché diverso non vuol dire difettoso.

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