Compleanni

Stamattina mi sono svegliato con una strana sensazione addosso. All’inizio non riuscivo a capire se fosse nostalgia o tristezza, si assomigliano troppo quelle due e a volte mi è davvero difficile distinguere l’una dall’altra. Ma non è stato un risveglio sereno, di quello sono certo.

Ho provato a ricordare se avessi sognato qualcosa di spiacevole, in genere è per quello che a volte mi alzo con un vortice scuro nel petto che risucchia tutta la luce dentro e fuori di me, ma niente, nessun ricordo. Poi all’improvviso, mentre l’odore del caffè si portava via gli ultimi residui di sonno, ho ricordato: ho sognato la scuola durante l’adolescenza, un incubo in vita, figuriamoci in sogno.

Di quel sogno ho solo brevi ricordi, immagini che come flash appaiono e scompaiono in un attimo. Rivedo me stesso seduto al banco da solo, in fondo all’aula, mentre i compagni in gruppo ridevano e ogni tanto mi lanciavano occhiatine da lontano.

In ogni scena che mi si presenta agli occhi della mente sono solo, ma non è questa la solitudine che tanto spesso cerco e cercavo anche da ragazzo, quella necessità di rimanere da solo con me stesso e dedicarmi ai miei interessi e a quei pensieri che altrimenti volano troppo veloci da poter essere afferrati, se c’è confusione intorno a me. No, quella del sogno è proprio solitudine, essere messo da parte, non considerato, invisibile; quello del sogno è il dolore che mi lacerò l’anima proprio quando tutti i miei coetanei plasmavano le loro aiutandosi l’un l’altro, costruendo insieme quella comprensione del mondo così dipendente dal rapporto con gli altri.

L’adolescenza è stata il momento di solitudine più estrema, in quel periodo sono riuscito perfino a perdere l’unico amico con cui alle medie ero riuscito a legare perché avevamo qualcosa in comune: eravamo soli, gli esclusi, quelli da prendere di mira e bullizzare, da sfottere e inseguire fino a casa dopo scuola.

Certi ricordi fanno male anche a distanza di anni, sono come coltelli che vagano roteando per l’aria e ogni tanto, per qualche motivo, ti trovi sulla loro traiettoria e un paio di quelle lame ti si conficcano nella carne, sempre nello stesso punto, riaprendo ferite antiche. E il dolore è lo stesso, e mi riporta interamente indietro nel tempo. Rivedo i volti, il colore di quella luce sempre tetra, l’aria densa e appiccicosa.

Ho imparato che quando il passato ritorna in modo così prepotente c’è sempre un motivo, e che bisogna affrontare il dolore e sfilarsi il coltello dalla propria carne immediatamente, prima che la ferita si infetti e la situazione degeneri in uno di quei lunghi periodi bui di incomprensibile tristezza e dolore che bloccano la vita, la sospendono a mezz’aria rendendola insopportabile.

Stavolta è stato facile sbrogliare la matassa, il filo non era affatto ingarbugliato. Ieri è stato il mio compleanno, e questo è un motivo sufficiente a farmi star male, una scadenza annuale che anche non volendo porta con sé il suo carico di ricordi amari, di esclusione e desiderio di normalità.

Questa cosa della socialità negli autistici continua a essere fraintesa, nel mondo lì fuori. Tutti continuano a pensare che a noi non piaccia stare insieme agli altri, comunicare, condividere momenti, idee, ridere insieme. Ma non è così, questa è la solita visione di chi osserva dall’esterno delle creature che non comprende, e cerca di capirle utilizzando come metro di giudizio esclusivamente le proprie caratteristiche. È quella visione falsata dal pregiudizio culturale, l’ideale medico deficitario che trasforma ogni differenza in guasto, ogni peculiarità in difetto.

Io ricordo solo che fin da bambino ho desiderato avere degli amici, che invidiavo i miei coetanei perché loro stringevano dei legami forti e spesso profondi, anche se a volte di breve durata. Io da parte mia ogni tanto ci provavo, riuscivo a invitare a casa qualche compagno di classe con la scusa dei compiti oppure corrompendolo con l’offerta di una merenda e qualche giro sulla mia BMX fiammante nel cortile di casa. Ma non sono mai riuscito a legare per davvero, ho sempre avvertito indifferenza da parte loro, tuttalpiù un interesse per qualcosa che io potevo offrire, ma niente di più.

E poi a complicare le cose c’era il mio disinteresse per le loro vite, per il calcio che occupava tanto spazio nella loro testa; a loro piacevano cose che mi spaventavano a morte come imbucarsi alle feste di sconosciuti, provarci con le ragazze, gli piaceva stare in gruppo e prendere per il culo gli sfigati come me, che trascorrevo la giornata appiccicato al pianoforte o leggendo, scrivendo racconti, ascoltando quella pallosissima musica barocca.

Il malinteso sulla socialità autistica è proprio questo: noi vorremmo – e in alcuni casi ci riusciamo anche molto bene – avere relazioni con altre persone, ma solo se loro ci accettano per quello che siamo e rispettano le nostre esigenze, i nostri tempi, se non ci ridicolizzano per le nostre caratteristiche e se condividono con noi qualche interesse particolare. Ci piace parlare e per questo preferiamo passeggiare insieme o rimanere in casa invece di incontrarci in posti affollati e rumorosi in cui non si riesce a capire quello che ci si dice, ci piace la compagnia ma bisogna tener conto dei nostri sensi così eccitabili che si sovraccaricano in un attimo, dobbiamo fare i conti con un differente linguaggio non verbale che ci rende spesso incomprensibili agli altri, e allo stesso tempo rende a noi difficile sapere cosa gli altri pensino, che intenzioni ci siano dietro a certi gesti.

A me da ragazzino sarebbe piaciuto festeggiare il compleanno come tutti gli altri, non solo coi parenti, tantissimi parenti che riempivano casa e almeno quando ero più piccolo creavano un’atmosfera di festa. Io avrei voluto che ai miei compleanni partecipassero i compagni di classe, proprio quelli che, quando mi andava bene, mi ignoravano.

Un paio di volte riuscii perfino a organizzare una festa. Certo, su venticinque ne vennero forse una decina, ma il problema non era nemmeno quello. La cosa più brutta di quelle feste messe su per inseguire il sogno di una normalità che non mi è mai appartenuta, era la distanza fra me e loro: venivo escluso dai gruppetti perfino alla mia festa. Così, dopo l’iniziale gioia di vederli a casa mia, subentrava il desiderio che quella finzione terminasse il prima possibile, che quelle persone andassero via e mi lasciassero solo. Perché tanto ogni volta che parlavo, che mi muovevo o provavo a interagire con loro era un disastro, e mi costava una fatica inimmaginabile.

A un certo punto ho rinunciato a inseguire il sogno perverso di un compleanno “normale” e ho smesso di fare feste. Niente, nemmeno quelle riunioni asfissianti di parenti gioiosi che organizzavano i miei genitori perché il bambino doveva festeggiare il suo compleanno, mica è normale che non spenga nemmeno le candeline. Che poi, anche questa storia di dover celebrare delle ricorrenze perché le fanno tutti, io non l’ho mai capita fino in fondo.

Quando parlo di differenze culturali tra il gruppo sociale degli autistici e quello dei neurotipici mi riferisco anche a cose come questa. Io sarei stato tranquillo e sereno senza festeggiare il mio compleanno, perché dentro di me non mi è mai importato nulla, non ho mai capito che senso avesse organizzare una festa ogni anno per celebrare la data di un parto. Ma fin da piccolo sono stato esposto a una realtà differente, una realtà per cui quella celebrazione è importante, va festeggiata ogni maledettissimo anno anche se di quella celebrazione non comprendi la necessità o il significato.

E allora cresci con questa impalcatura vacillante che ti hanno costruito attorno, per un bel po’ di anni credi addirittura che sì, tu VUOI celebrare il tuo compleanno, non ti rendi conto che quel desiderio ti è stato indotto da una società per cui è normale, una società a cui non piace tutto ciò che si discosta dalla normalità.

Poi cresci, gli inganni cominciano ad apparire per quello che sono, incomprensibili consuetudini, desideri imposti dall’esterno, divieti di essere quello che realmente sei, di perseguire i tuoi obiettivi, soddisfare le tue aspirazioni. E col tempo il desiderio di trascorrere quella giornata come tutte le altre stride contro la normalità che ti circonda; il desiderio di essere come gli altri fa a cazzotti con la necessità di essere te stesso.

Stamattina mi sono svegliato con una sensazione che non provavo da tempo e per qualche momento non ho saputo chi fossi, quanti anni avessi. In un istante sono stato risucchiato in quella sensazione di nostalgia e tristezza, di solitudine amara e dolce voglia di star solo. E così continua a essere ogni volta che esce alla luce uno di questi contrasti, quelle parti di me che non mi sono mai appartenute veramente ma che, proprio per questo, tante volte ho desiderato che fossero mie.

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