Qui in Spagna è trascorso quasi un mese dall’inizio dell’isolamento, un isolamento che è stato abbastanza duro fin dal principio, senza possibilità di fare attività fisica all’aperto né passeggiate intorno all’isolato.
In un mese sarò uscito di casa tre, forse quattro volte, io che ogni giorno percorrevo chilometri e chilometri a piedi per scaricare la tensione e schiarirmi le idee. Da un giorno all’altro, come tutti quanti, la mia già fragile routine quotidiana è stata letteralmente smembrata e i pezzi rimescolati a casaccio per vari giorni fino ad arrivare a una nuova routine, provvisoria ma funzionale a contrastare il momento di totale instabilità collettiva, nonostante i problemi di sfasamento col mondo “normale” persistano.
Rileggendo i vari articoli che ho scritto da quando è cominciato questo necessario, anzi indispensabile esilio, ho notato come all’inizio il mio sentimento prevalente fosse di disperazione. Un autistico ha la necessità assoluta di poter contare su un certo numero di punti fermi nell’arco della giornata, come delle boe a cui aggrapparsi durante una traversata in mare a nuoto. La traversata è obbligatoria, non abbiamo scelta, e nella maggior parte dei giorni il mare è mosso, a volte in tempesta, per cui la posizione esatta di quelle boe è fondamentale, altrimenti si rischia di annegare.
Ora immaginate che un giorno vi tuffate nel mare agitato, il cielo scuro e il vento che non promette niente di buono, e quando pensate che in poche bracciate potrete riposare aggrappandovi alla prima boa, non la trovate. E già questo fa aumentare l’ansia, e le onde diventano più alte.
Siete stanchi ma pensate che almeno alla seconda boa potrete riposare, però il dubbio che non ci sia nemmeno quella boa vi assale, e l’ansia aumenta ancora di più. E le onde si fanno ancora più alte, e le correnti più insidiose.
Arrivati alla seconda boa, con un mix di speranza, stanchezza e disperazione, vi accorgerete che nemmeno quella è al suo posto. Siete distrutti, ma dovete continuare, non avete scelta, e a ogni boa che non è al suo posto il mare si agita di più, l’ansia aumenta, il panico prende il sopravvento.
È possibile che la prima traversata non riusciate a portarla a termine, che affoghiate nel tentativo. Il sovraccarico dovuto all’assenza di punti fermi vi fa esplodere in un meltdown col botto o spegnere in uno shutdown estenuante. Una delle due a scelta, tanto l’effetto è lo stesso: rimanete inutilizzabili per un periodo di tempo variabile.
Il giorno dopo, la traversata riprende, e probabilmente troverete una prima boa verso l’inizio: una similitudine col giorno precedente, una riunione via Skype alla stessa ora o il pranzo, una cosa qualsiasi. Probabilmente affogherete ugualmente ma dopo più tempo, perché avrete potuto riposare sulla prima nuova boa. E così trascorrono i primi giorni, alla ricerca di nuove boe nel mare in tempesta e, ogni giorno, con la possibilità di riposare aggrappati a più boe l’ansia diventa gestibile, il mare meno agitato.
Sembra un paradosso che con l’aumentare i punti di appoggio durante l’arco della giornata – che ci rende più riposati – diminuiscano i problemi, l’ansia, lo stress, il senso di spaesamento, e il mare si calmi. Ed è proprio questo uno degli effetti peggiori di non poter seguire le proprie routine, che non solo la mancanza di ripetitività e di punti fermi crea stanchezza e irritabilità, ma allo stesso tempo rende anche la vita imprevedibile, un mare in burrasca che aumenta a sua volta la stanchezza e la disperazione. Un circolo vizioso infernale.
La prima settimana di clausura è stata uno strazio. Sono venuti meno i miei spazi personali sia in casa che sul lavoro, ho perduto la gestione del mio tempo (che è sempre stato diverso da quello degli altri, come ho spiegato sia in Eccentrico che in altri articoli, e quindi ha bisogno di attenzioni particolari), il rumore costante generato dai vicini perennemente nelle loro case ha saturato i miei sensi in un attimo, e tutto si è mescolato in una marmellata avvelenata impossibile da digerire.
Durante quei primi giorni le crisi sono state numerose, e altrettanto frequente la necessità di fermarmi per riposare, cosa non sempre possibile sia a causa del lavoro sia perché, dal momento che le esigenze della società non tengono mai conto delle differenze di ciascuno, diventa difficile accettare di non riuscire a farcela.
Come in un videogioco, però, ogni volta che ripeti un livello impari qualcosa, ogni volta che muori, rinasci più forte, trovi più punti fermi, più boe. La fatica diminuisce, la traversata comincia a diventare possibile, seppure sempre stancante. Il discorso sicuramente vale per chiunque, basta osservare il disagio che in vari modi stanno esprimendo anche i neurotipici da quando sono stati privati delle loro routine.
Parlando con molti autistici (verbali, quindi quelli che alcuni genitori con una certa mancanza di tatto definiscono “più fortunati”) e con altrettanti genitori di autistici di livello 2 e 3, ho notato che nella maggioranza dei casi a un periodo iniziale di panico e crisi continue è seguito un momento di assestamento altrettanto complicato e poi una fase di stabilizzazione. Questo, però, solo dove sia stato possibile stabilire nuove routine, nuovi punti fermi.
Ovviamente bisogna considerare che in molti casi i punti fermi come le passeggiate o le attività nei centri diurni o la scuola e il lavoro (intesi come luoghi fisici e persone che vi si incontrano), rappresentano boe impossibili da sostituire in poco tempo. La stabilità raggiunta in questo momento infatti è assai fragile e a volte basta il ricordo di quello che prima facevamo in un determinato momento della giornata per scatenare una situazione di crisi.
Di questa necessità fondamentale di struttura parlavo due giorni fa con un’amica autistica che, come me, è in contatto costante con tanti altri neuroatipici, e concordavamo su questo punto estremamente semplice, talmente semplice da apparire banale: quando una struttura (che può essere una routine, come in questo caso) viene a mancare e non è replicabile, bisogna sostituirla nel tempo più breve possibile con un’altra, non importa che sia uguale alla precedente, quello che conta è che ci sia e rapidamente.
Dopo quasi un mese chiuso in casa ho trovato le mie boe, sto controllando di più gli orari, ordinando i pensieri e stabilendo limiti all’utilizzo delle reti sociali e alla lettura di informazioni. Sono riuscito a ridurre il problema del rumore dei vicini trascorrendo la maggior parte della giornata con le cuffie e il rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia che mi isola dal mondo, ho preso possesso di un’ala dell’appartamento ritagliandomi i miei spazi.
Certo, è complicato quando non si hanno elementi facilmente visibili che scandiscano la giornata. Non c’è un cambio di luogo fisico tra lavoro e casa, gli orari si sono sciolti come la cera di una candela e i contatti con le persone non necessitano più di quello spartiacque che era la presenza fisica, che impediva che qualcuno ti piombasse in casa a qualsiasi ora del giorno e della notte senza preavviso.
Ora siamo perennemente disponibili, potenzialmente potremmo lavorare per 24 ore di fila, se non vuoi vedere qualcuno o hai bisogno di tranquillità non puoi dire che non ci sei. È una situazione talmente fluida che realmente può dare problemi a chiunque, eppure sto notando che con una struttura anche piuttosto semplice e sicuramente provvisoria, io riesco a stare meglio, sempre quando mi è permesso mantenerla, e qui arrivano i problemi.
Io ho stabilito delle regole semplici come controllare il telefono solo paio di volte al giorno, lavorare esclusivamente in determinati orari e interagire col mondo in momenti specifici della giornata. Sono le mie boe, le mie sicurezze, quello strumento che mi permette di poter lavorare meglio, essere più presente e coinvolto con gli amici, evitare di esplodere o implodere continuamente.
Purtroppo, però, la necessità di una struttura regolare e non modificabile si scontra con una società disordinata e caotica che infila i propri tentacoli in qualsiasi tentativo di organizzazione uno possa mettere in atto. Così, la necessità di strutturare le ore di lavoro come se si fosse in ufficio viene frustata da email e chiamate in orari impossibili, il bisogno di interagire con gli altri solo in momenti in cui non si è concentrati sul lavoro o su un proprio interesse viene mortificato da una valanga di video chiamate mai vista, messaggi audio, video, foto, meme, ai quali devi anche rispondere immediatamente, altrimenti è peggio.
Cambiamenti dell’ultimo minuto con le riunioni di lavoro – tanto che vuoi che sia, siamo tutti a casa – che stravolgono i programmi di un’intera giornata minano quella struttura provvisoria che è per noi l’unica salvezza, e dimostrano quanto poco la società neurotipica abbia compreso il significato delle parole differenze e inclusione.
Già, perché poi alla fine dei giochi il risultato è sempre lo stesso. La nostra diversità, le nostre differenti esigenze (che alcuni ancora vedono come capricci) non vengono considerati, e lo scontro tra una cultura che non contempla alternative perché forte della propria maggioranza numerica e la nostra, più debole e considerata difettosa solo perché in minoranza, mette a rischio la fragile stabilità conquistata con la creazione di nuove routine e strutture.
Il lockdown ha cambiato le condizioni esterne ma non ha a modificato di una virgola le nostre condizioni particolari. E ogni giorno sono più convinto dell’urgenza di spostare il discorso sull’autismo sul piano socioculturale, lasciando quello medico agli specialisti. Se non si riconosce l’esistenza di un gruppo sociale e culturale come quello autistico, con delle proprie modalità di funzionamento differenti ma altrettanto valide rispetto a quelle tipiche, continueremo a faticare terribilmente per riuscire a farcela, e ogni tentativo di trovare serenità attraverso la ricerca di regolarità verrà reso meno efficace, quando non frustrato miseramente.
Basterebbe davvero poco, e forse questo momento così difficile per tutti, in cui anche i neurotipici sono privati di alcuni loro bisogni e sperimentano difficoltà simili alle nostre, potrebbe essere quello giusto per stimolare una riflessione su quanto le cose possano cambiare all’improvviso, su quanto la cultura dominante in un determinato momento non sia più giusta né sbagliata di altre, e nemmeno eterna.