Autismo: dov’è l’autorappresentanza?

Quando una persona rientra in una di quelle categorie umane definite come minoranze, nel suo vocabolario compaiono parole come esclusione e inclusione ma anche privilegio, normalità o diversità. Non si tratta però di una questione puramente linguistica, perché queste parole si traducono in fatti concreti, in occasioni mancate e spesso in difficoltà che impediscono a chi le sperimenta quotidianamente di esprimersi al pari delle altre persone o di accedere a opportunità che, per chi invece rientra nella cosiddetta maggioranza, sono più o meno garantite e che vengono date per scontate.

Oggi, 2 aprile, è la giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo, istituita nel 2007dall’OMS per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione autistica. Si tratta di uno strumento che potrebbe essere estremamente utile a creare consapevolezza, sfatare falsi miti e dissipare quell’alone negativo che ancora accompagna l’autismo, ma non sempre viene utilizzato nel migliore dei modi.

In particolare, il 2 aprile solleva in modo estremamente evidente una carenza nella comunicazione di questa condizione del neurosviluppo e, cosa estremamente grave, una forte mancanza di autorappresentanza delle persone direttamente interessate nella narrazione che le vede protagoniste, e dia al loro punto di vista la stessa dignità che, giustamente, viene attribuita al racconto dei familiari, degli specialisti, degli educatori.

La mancanza di una rappresentazione fatta dalle autistiche e dagli autistici comincia proprio con l’uso dei simboli ormai associati quasi istintivamente all’autismo: il colore blu e il pezzo di puzzle. Il puzzle fu utilizzato inizialmente dalla National Autistic Society nel 1963 e poi reso famoso da Autism Speaks, associazione americana che ha anche lanciato l’idea di colorare di blu il 2 aprile. Il problema, che da anni viene fatto notare da un numero sempre maggiore di persone autistiche, è che proprio da questa associazione non si sentono rappresentate in quanto la visione che essa diffonde dell’autismo è essenzialmente deficitaria, patologica, l’idea che si tratti di un guasto da riparare.

Ma la questione va ben oltre l’uso di simboli non graditi da almeno una parte consistente della categoria che vorrebbero rappresentare, e si palesa in modo lampante nell’organizzazione delle attività legate a questa giornata e che dovrebbero favorire la diffusione di un’immagine dell’autismo più vicina alla realtà. Se scorriamo i programmi degli eventi legati al 2 aprile, scopriamo la quasi totale assenza di persone autistiche tra i relatori e gli ospiti.

La carenza di una rappresentazione in prima persona delle minoranze non è caratteristica esclusivamente di questa condizione. Si tratta di un difetto comune a un concetto di inclusione che ancora viene portato avanti in modo paternalistico da una maggioranza che prima esclude, creando categorie come quella della normalità in cui accogliere esclusivamente chi rientra in determinati parametri tutt’altro che oggettivi, e successivamente agisce dall’alto decidendo chi includere e a quali condizioni.

Questo squilibrio non fa altro che contribuire a una narrazione dell’autismo filtrata attraverso lo sguardo della cosiddetta normalità. Torno a precisare che il problema non è che oggi parlino di noi autistiche e autistici tanti genitori, psicologi e giornalisti neurotipici (persone non autistiche) ma che, paradossalmente, nella giornata a noi dedicatala la nostra voce non abbia lo stesso peso delle altre.

Ritornano così quelle parole accennate all’inizio, il forte senso di esclusione da una società che sembra non riuscire a vedere la diversità come una condizione naturale. Torna la sensazione che la giornata del 2 aprile sia un’occasione mancata di poter mostrare al mondo la nostra esperienza, di manifestare liberamente la nostra natura, le aspirazioni, i desideri. Risale a galla la sensazione che, ancora oggi, poter decidere in che modo essere rappresentati nel mondo sia un privilegio, cioè un diritto garantito solo a una parte della popolazione ma del quale, arbitrariamente, un’altra parte è privata.

E allora oggi invito chi legge a fare attenzione a quel fenomeno denominato infodemia, a quell’eccesso di informazioni spesso non verificate e poco accurate, e in particolare vorrei suggerire uno sguardo critico verso chiunque parli o scriva di autismo utilizzando una terminologia patologizzante, verso chi descrive le persone autistiche come creature difettose e sofferenti, chi ci crede “affette” da autismo. E vorrei anche mettere in guardia da coloro che ci descrivono come esseri speciali, andando (spesso involontariamente) a porre l’accento proprio su quelle caratteristiche percepite come deficit e che, in tale visione, vengono messe in ombra da qualche presunta dote eccezionale.

L’autismo non è una malattia, e non perché la malattia sia una cosa negativa di per sé, ma perché questo termine suggerisce l’idea di una cura, di un guasto da riparare e vanifica il tentativo portato avanti da tante persone di mostrare che si tratta invece di differenti caratteristiche. L’autismo inoltre non è una condizione esclusivamente infantile, è una particolare organizzazione del sistema nervoso che, proprio come quella della maggioranza, rimarrà uguale per tutta la vita. Quindi attenzione a chi parla sempre e solo di bambine e bambini autistici dimenticando che poi cresceranno e con l’età diventeranno sempre meno visibili.

Nella giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo vorrei che il pubblico avesse la possibilità di vederci per quello che siamo: persone. Sarebbe bello che il linguaggio utilizzato per descriverci rispettasse ciò che proviamo, che riuscisse a rispecchiare chi siamo realmente, e per questo mi auguro che sempre di più -e non solo il 2 aprile – la narrazione che noi autistiche e autistici possiamo offrire della nostra condizione trovi un posto insieme a quelle di chi ci sta vicino, delle nostre famiglie, degli specialisti, dei terapisti.

 

Articolo pubblicato su: https://www.intersezionale.com/2021/04/02/12715/

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