Cosa NON è l’autismo

I manuali diagnostici parlano di autismo partendo da una visione medica che cerca deficit da riparare, perché quello è il loro campo di applicazione[1] . Di questa condizione del neurosviluppo oggi parlano tanto anche i mezzi di comunicazione come giornali, televisioni, blog, e di conseguenza anche le persone comuni sulle reti sociali. Eppure, da autistico, noto a volte con fastidio che la narrazione di questa condizione è spesso imprecisa, infarcita di stereotipi che non corrispondono assolutamente alla realtà che noi persone autistiche viviamo quotidianamente; è una narrazione dell’autismo filtrata quasi sempre dallo sguardo di persone non autistiche.

E allora, voglio provare a raccontare cosa NON è essere una persona autistica.

Innanzitutto bisogna chiarire che l’autismo non è una malattia. Non siamo ‘affette’ né ‘soffriamo’ di questa sindrome perché c’è una chiara differenza tra una condizione del neurosviluppo e una malattia. Il vocabolario Treccani, che è sempre utile consultare in caso di dubbio, ci dice che la malattia è “Lo stato di sofferenza di un organismo in toto o di sue parti, prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano. Elemento essenziale del concetto di m. è la sua transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può essere la guarigione, la morte o l’adattamento a nuove condizioni di vita”.

Condizione transitoria e reversibile, ecco la questione. La letteratura scientifica più aggiornata è concorde nel definire l’autismo una condizione del neurosviluppo, insomma qualcosa con cui si nasce e che consiste in una diversa organizzazione di alcune aree del sistema nervoso, con le differenze comportamentali, sensoriali, cognitive ed emotive che ne conseguono. La comunità scientifica ci dice inoltre che da una condizione come l’autismo non si guarisce, che non è reversibile. Va inoltre specificato che, rispetto al concetto di malattia, che prevede un cambiamento di funzionalità in un organismo, nell’autismo parliamo di differenze neurologiche presenti con buona probabilità dalla nascita.

Di conseguenza, l’autismo non ‘passa’ con l’età. Certo, può accadere che col tempo alcune caratteristiche come l’ansia o le differenze nella socializzazione sembrino attenuarsi: questo succede per vari motivi. In alcuni casi si apprende a controllare determinate reazioni, si riesce ad agire sull’ambiente oppure si sviluppano strategie che permettono una migliore comunicazione e interazione con gli altri; si può imparare a resistere al fastidio spesso insopportabile che certi stimoli (rumori, luci, tessuti…) provocano. In ogni caso si tratta di strategie sviluppate e messe in atto con grande dispendio energetico per compensare una differenza neurologica che, di fatto, rimarrà lì anche una volta appreso eventualmente a gestirla.

Una questione relativa all’identità e percepita come prioritaria da molte persone autistiche, è quella del linguaggio con cui vengono rappresentate. Diversi sondaggi realizzati tra autistici e loro familiari in varie nazioni hanno mostrato in modo chiaro che le persone autistiche preferiscono in maggioranza l’utilizzo di quel linguaggio che viene definito identity-first (ossia autistico, autistica, persona autistica) rispetto al linguaggio person-first (persona con autismo), che invece è più utilizzato da specialiste e giornalisti o da persone che non conoscono la condizione autistica.

Una delle obiezioni delle persone autistiche al linguaggio person-first (persona con autismo) è che sentendo la necessità di specificare che dietro l’autismo c’è una persona si sottintenda che quelle caratteristiche siano necessariamente negative. Insomma, l’autismo non si ha, ma si è autistici. Dal momento che, come abbiamo appena visto, l’autismo non sfuma con l’età ed è una condizione pervasiva, esso non è qualcosa che mi si possa togliere di dosso, è ciò che io sono e le sue caratteristiche mi definiscono come persona.

Noi autistiche e autistici non siamo asociali. Non abbiamo nemmeno deficit nell’area sociale, semplicemente il nostro modo di interpretare le regole sociali non scritte, che nella società a prevalenza neurotipica sono estremamente naturali e importanti, è differente. Abbiamo però una serie di regole e convenzioni che funzionano tra di noi (sì, quando siamo tra neurodivergenti riusciamo a socializzare, e anche molto) ma non necessariamente con chi non è come noi; insomma, l’incomprensione è mutua. Si tratta di una differente modalità di socializzazione. Per socializzare basterebbe capirlo e tentare una mediazione, nel rispetto delle modalità di ciascun gruppo.

Non è vero che non abbiamo empatia. La mia mamma, scherzando ma non troppo, mi chiamava cuor di pietra. Anche qualche amico, da adolescente, mi ha rimproverato una certa freddezza e a volte le persone mi vedono come egocentrico. Eppure quello che gli altri provano mi colpisce e in modo anche molto forte. La tristezza altrui, la rabbia, le percepisco e le sento dentro di me, solo che a volte non ne capisco il motivo.

Con il ‘Problema della doppia empatia[2]’, lo studioso autistico Damian Milton suggerisce una cosa che molti di noi autistici già sappiamo: è un problema di interpretazione delle dinamiche sociali tra i due gruppi, autistico e non autistico, ciascuno dei quali prova a interpretare i segnali verbali e non verbali utilizzando il proprio linguaggio; è una questione di reciprocità. È un po’ come se un cinese e un italiano cercassero di comunicare rispettivamente nella propria lingua, senza però conoscere l’altro idioma; siccome però si trovano in Italia, l’italiano fa parte della maggioranza e allora dirà che il cinese non capisce niente.

Le persone autistiche non sono capricciose (non più di quelle non autistiche). Sarà vero che quello sbattere i piedi per terra, rovesciare il piatto con la pasta, urlare tappandosi le orecchie, sono dei semplici capricci? Se una bambina autistica (soprattutto quando non si esprime attraverso il linguaggio verbale) non mangia, grida e si rifiuta di fare qualcosa, oppure quando non vuole entrare al centro commerciale o esplode in un violento accesso di rabbia per una sciocchezza, è molto probabile che non stia facendo i capricci ma stia avendo una crisi dovuta a un sovraccarico sensoriale, cognitivo o emotivo. Queste crisi, chiamate meltdown, possono a volte assomigliare ai tipici capricci infantili, ma hanno alla base una saturazione del sistema nervoso che, come unica valvola di sfogo per resettarsi, esplode lasciando sgonfiare la pressione

Ma perché allora l’autismo continua a essere considerato una collezione di deficit? Una delle cause di questa situazione è da ricercare nel persistere di una narrazione figlia del cosiddetto modello medico di questa condizione[3], secondo la quale ogni differenza rispetto alla normalità presente nel comportamento autistico viene etichettata come ‘deficit’. Questo sguardo riparatore che vede le differenze come difetti non è relativo solo all’autismo ma pervade la visione che la società ha di tutte le persone che giudica diverse,
perpetrando la patologizzazione della diversità attraverso un uso medico del linguaggio anche al di fuori dell’ambito specialistico.

[Da: Fabrizio Acanfora. In altre parole, dizionario minimo di diversità. ed. effequ]

NOTE
[1] Il DSM-5 e l’ICD11
[2] D. Milton, On the Ontological Status of Autism: the ‘Double Empathy Problem’, in «Disability and Society», 27(6), 2012, pp. 883-887.
[3] Si tratta di definizioni coniate nell’ambito dei ‘Disability studies’ e che si riferiscono in generale alla disabilità (anche fisica e sensoriale).

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