Spesso le persone autistiche vengono descritte come patologicamente dipendenti da routine ferree e apparentemente prive di senso. Certo, se osservate superficialmente dall’esterno, alcune routine potrebbero apparire incomprensibili, e soprattutto la persona autistica sembrerebbe effettivamente inflessibile, incapace di gestire gli imprevisti e i cambiamenti.
Ma è proprio così che stanno le cose? Io non ne sono proprio convinto, e per riuscire a capire meglio forse è utile provare a ragionarci un po’ sopra.
Intanto, partiamo da un presupposto: la nostra è una cultura che vede la competitività come un valore positivo, anzi, desiderabile. Rifacendosi in modo semplicistico al concetto di fitness (cioè di adattamento) malamente estrapolato dalla teoria sull’evoluzione di Darwin, l’ideologia odierna tende a premiare chi meglio si adatta e dimostra maggiore flessibilità. Premia la competitività in quella che assomiglia sempre più a una lotta per la sopravvivenza, in cui ciascuna persona è abbandonata davanti al proprio futuro. Tutto questo alla faccia di migliaia di anni di evoluzione culturale, dello sviluppo di concetti come i diritti umani e della creazione di società complesse che dovrebbero servire, tra le altre cose, anche a sostenere chi ha caratteristiche diverse da quelle della media della popolazione.
Secondo questo ideale ipercompetitivo di adattamento, bisogna guadagnarsi anche l’aria che si respira; l’idea di una meritocrazia che non tiene minimamente conto della disparità di accesso a risorse e opportunità ormai dilaga facendo danni ovunque, anche e soprattutto nelle istituzioni, che invece quelle opportunità dovrebbero occuparsi di crearle. È chiaro che, in un ambiente del genere, non essere capaci di “uscire dalla propria zona di comfort”, come recita uno dei mantra della nostra cultura, è un grosso problema. E noi persone autistiche apparentemente avremmo parecchi problemi proprio in questo senso.
Così, arriviamo al nodo della faccenda. Siamo proprio sicuri che noi autistici e autistiche davvero non usciamo mai dalla cosiddetta “zona di comfort”? No, non ne siamo sicuri. Anzi, è molto probabile il contrario. Perché l’autismo è una condizione del neurosviluppo in cui il sistema nervoso è organizzato in modo differente rispetto alla media della popolazione, e questo ha delle conseguenze sul modo in cui vengono elaborati gli stimoli sensoriali e le informazioni, e di conseguenza sulla maniera con cui ci si mette in relazione col mondo.
Nello specifico, nell’autismo i meccanismi che regolano la prevedibilità degli eventi e dell’ambiente nel quale viviamo si basano sull’interpretazione di codici diversi da quelli della maggioranza, o su una differente interpretazione di codici condivisi. Il mondo autistico potrebbe essere descritto in modo estremamente semplicistico come particolarmente intenso e imprevedibile.
Chiariamo che, almeno dal mio punto di vista, non si tratta di deficit di per sé, ma di differenze interpretative tra due distinte e altrettanto legittime modalità di funzionamento neurologico. Il grosso problema sta nel fatto che la maggioranza neurotipica vive in una realtà che ha essa stessa costruito in base alle proprie caratteristiche neurologiche, sensoriali, sociali e comunicative e che quindi, in linea di massima, risulta relativamente prevedibile e sensorialmente gestibile.
Una persona autistica invece, dal momento in cui apre gli occhi al mattino, deve muoversi in un mondo che funziona seguendo meccanismi tarati su persone dalle caratteristiche diverse dalle sue. Verrà quindi bombardata da stimoli sensoriali che in alcune occasioni la porteranno a sovraccarichi anche estenuanti, e dovrà sforzarsi costantemente di interpretare codici sociali e linguistici a lei spesso oscuri che invece per le persone neurotipiche sono innati. A tutto questo va aggiunto che dovrà anche sopportare lo stigma che la società comunemente associa alla condizione autistica proprio a causa di tali differenze, per cui una persona neurodivergente verrà vista come incapace di comprendere determinate situazioni o linguaggi, incapace di socializzare, incapace di controllarsi. In breve: incapace.
Come se non bastasse, dopo una vita trascorsa nel mondo neurotipico, un mondo che spesso viene descritto da autistiche e autistici come caotico e alieno, ci viene detto che dobbiamo uscire dalla nostra “zona di comfort”, roba che se non fosse l’ennesimo stereotipo disturbante sull’autismo, farebbe davvero ridere.
Questo ovviamente non significa che a una persona autistica non si possa suggerire di allargare i propri orizzonti o che non vada mai invogliata a sperimentare cose nuove, almeno non più di quanto lo si farebbe con una persona neurotipica. Il problema sta nell’idea alla base: se vuoi aiutarmi ad ampliare la mia conoscenza del mondo, fallo sapendo qual è la situazione di partenza. Non pensare di dovermi spronare a fare cose nuove, a provare sapori differenti o cambiare strada per andare a scuola con l’idea che le mie routine siano patologiche, che io debba imparare a essere più “normale”, perché quelle routine servono a dare un minimo di stabilità a un mondo incontrollabile. Fallo, se credi sia necessario, pensando che davanti a te hai semplicemente una persona. E che inoltre questa persona, durante la giornata, si trova ad affrontare un’infinità di situazioni imprevedibili e difficili da gestire, molte più di quante ne capitino a te. Fallo, se credi possa essere utile, ma essendo cosciente che non è mai una questione di abitudine o di pigrizia, bensì di un diverso funzionamento neurologico, di un modo differente di percepire il mondo, di interpretarlo, di viverlo.
E ricorda che se a te sembra che io non sperimenti mai nulla di nuovo o non esca mai dalla mia zona di comfort, è grazie al privilegio che tu possiedi, il privilegio di vivere in una società fatta apposta per persone come te, e che stigmatizza chiunque appaia differente; il privilegio della “normalità”.