Shutdown da panico

Acrobata su una corda in bicicletta

 

Stavolta non l’ho sentito arrivare. È giunto all’improvviso dopo cena, mentre mi preparavo per andare a dormire

Sarà stato il film, mi sono detto all’inizio. Sarà stata la storia della madre depressa, la scena del funerale così realistica e insomma, forse il trigger è stato quello. Sono trascorsi ormai quasi 22 anni da quella notte, ma continua a sembrarmi ieri e a volte basta poco per far tornare tutto a galla.

Film o non film, è arrivata l’ansia. Tanta, una vagonata d’ansia che mi ha sepolto in un secondo mentre ero lì che cercavo di non soffocare con lo spazzolino in bocca. Non è il film, ho pensato, sarà un calo di pressione, con questo caldo. Ma no, la pressione era a posto. Allora è qualcos’altro.

Arriva il panico. Non mi piace quella sensazione che stia per accadere qualcosa di brutto, il terrore che da un momento all’altro si scateni una tragedia, la paura di una morte imminente. Il cuore che mitraglia nel petto e tu lì a pensare che se non rallenta esploderà, e più ci pensi più aumenta la paura e i battiti accelerano. È orribile, il panico, ed è bastardo perché si autoalimenta della paura che non passi più, che possa aumentare fino a farti esplodere. E quando l’ansia e il panico erano ormai diventati insostenibili, mi sono spento.

Il casino della strada si è fuso in una marmellata di suoni senza senso, il respiro è tornato quasi regolare e ho cominciato a sentirlo rimbombare dentro di me, come quando ti tappi le orecchie e ascolti il rumore profondo dell’aria che entra ed esce dai tuoi polmoni. Il mondo di fuori si è fatto irrilevante, si è allontanato e ho cominciato a fluttuare nel vuoto. Shutdown, ho pensato.

Un senso di solitudine avvilente, le luci spente, i rumori indistinti che arrivavano dalla strada. Nel letto non riesco a rimanere, è scomodo e fa troppo caldo, ho pensato. Vorrei sdraiarmi sul pavimento fresco, come fa la gatta quando ha caldo. Ma non riesco a muovermi. Penso: “alzati”, ma niente, un sacco di patate. Tutto funziona al rallentatore, anche i pensieri. Acqua. Fresco. Alzati.

Dopo un tempo interminabile mi sono ritrovato in piedi. Appoggiato, anzi spalmato alla parete, la sensazione di fresco e stabilità così rassicurante. Il letto è troppo morbido, serve una superficie in cui non sprofondare. Barcollo verso la porta strisciando contro la parete come un geco ubriaco. Inciampo. “Mi hai svegliato!”. Ti ho svegliato. Sto male, vorrei dirti mentre supplico la mano di raggiungere la maniglia della porta. Sto male, ho sete, aiutami, vorrei riuscire almeno a sussurrare, ma non esce che un suono inarticolato e debole. E tu già russi di nuovo.

Avvolto dal senso di solitudine e disperazione dell’esistenza umana, più lento di un bradipo appiccicato alla parete, raggiungo la cucina. Non ricordo se sia riuscito ad aprire il frigorifero, non so se ho bevuto alla fine, tutto è confuso. I vicini festeggiavano qualcosa. Tutti. Quelli accanto con la musica a palla, quelli di sopra parlavano a voce altissima, o ero io che sentivo tutto amplificato. E senza nemmeno pensarci mi sono ritrovato in bagno, con la ventola accesa che mi isolava dal mondo, al buio, sul pavimento freddo. Passerà, ricordo di aver pensato. Fa male ogni volta ma passerà.

Già, fa male. Soprattutto fa male pensare perché succede. Fa male quel pensiero subdolo e insistente che torna a galla in certi momenti fin da quando ero piccolo: non sei fatto per questo mondo. E quella sensazione di essere fuori luogo che aumenta, la consapevolezza che nel tentativo di funzionare come gli altri, nel loro mondo, prima o poi arriva la crisi, il punto di non ritorno. Prima o poi l’intensità del mondo coi suoi rumori costanti e la sua frenesia, le urla, gli obblighi incomprensibili, ti mette fuori uso; a volte esplodi, altre ti spegni, come ieri sera.

Fa male pensare di dover essere sempre e solo tu, ad adattarti costantemente. Tu, autistico, devi trovare strategie per funzionare al meglio in un mondo che non è progettato per persone come te. Tu, diverso, devi vivere con l’ansia perenne, sopraffatto da una società rumorosa e caotica. C’è poco da fare, è così, e questa consapevolezza è dolorosa, rosicchia quel poco di sicurezza che col tempo ci si costruisce con fatica.

Ma alla fine tutto passa. Certo, rimangono i segni, ogni crisi lascia la sua cicatrice e poi aumenta il timore per la prossima: quando capiterà, e soprattutto dove? Perché se sei per la strada è un casino, rischi di farti male, di essere portato in ospedale. A me è successo mentre tornavo dal lavoro, tempo fa. Barcollavo, piangevo, la gente mi fissava. Ma a casa in qualche modo ci arrivai, per fortuna.

Tutto passa. Stanotte è piovuto e l’aria è fresca e profumata. Vado a fare una passeggiata prima che si alzi il sole e poi al lavoro. Tutto passa, mi dico, cercando di mantenermi in bilico come un acrobata su un filo, sperando di non cadere di sotto perché non lo sai mai, se ci sarà una rete ad attutire il volo.

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