Eau de sensory overload

Lunedì, giornata di riunioni all’università. La prima, in particolare, mi interessa molto perché è con un’associazione che si occupa di ragazzi nello spettro autistico che vorrebbe avviare un programma di musicoterapia.

Arrivo sbarbato, vestito decentemente (nel senso che ho evitato di uscire di casa come un profugo) e pronto a spiegare in modo chiaro e preciso i vari progetti che portiamo avanti con entusiasmo e partecipazione!

Arriva la responsabile del centro, mi avvicino per salutarla e si scatena l’inferno. La signora usa un profumo fortissimo, qualcosa che in teoria dovrebbe sapere di fiori ma che, al mio olfatto ipersensibile, ha l’effetto di un pugno nello stomaco. Immediatamente avverto qualcosa di simile a un conato di vomito, ma continuo a sfoggiare il mio sorriso di plastica, quello che tanti anni di pratica mi hanno permesso di perfezionare fino a sembrare quasi spontaneo.

Usciamo sulla terrazza e ci mettiamo a sedere, la signora ordina un caffè, io un rooibos perché già prevedo problemi e ci manca solo la caffeina per essere certi che sbroccherò. Per fortuna che siamo all’aperto, penso, sperando che il vento disperda l’orribile fragranza che continua ad aleggiare intorno alla mia interlocutrice come un’aura sinistra. Ma oggi c’è il sole, la temperatura è piacevole e l’aria è assolutamente immobile.

Lei comincia a parlare, mi spiega il lavoro dell’associazione, quanto le interesserebbe avere un musicoterapeuta formato nel nostro master e tante altre cose che adesso proprio non ricordo, perché a un certo punto l’aria tiepida del mattino si riempie di quel profumo forte e, apparentemente solo per me, disgustoso. Mi distraggo di continuo e comincia l’ansia, che fino a quel momento era rimasta nascosta aspettando il momento migliore per saltare fuori. Lo stomaco è in rivolta, il profumo sta prendendo il sopravvento.

Quando arriva il mio turno di parlare provo a concentrarmi, sorrido (ma temo che a questo punto fosse più una smorfia grottesca) e comincio. Tutto bene, per un po’, però ormai i sensi sono fottuti. Il passerotto che mi svolazza accanto mi distrae: chiedo scusa, cerco di ritrovare il filo, riprendo il discorso. A uno studente, qualche metro più in là, casca per terra la bottiglietta d’acqua e io reagisco come se fosse esplosa una bomba, lanciando un urlo. La signora dell’associazione mi fissa perplessa, la direttrice del master mi conosce bene e sembra non farci troppo caso.

Forse bisogna spiegare cosa succede, penso, magari riesco a salvare la riunione. Nervoso e frustrato mi scuso con entrambe, è l’autismo, dico, ecco una dimostrazione pratica di cosa vuol dire avere difficoltà a relazionarsi a un mondo che non è proprio fatto per noi. In un attimo di lucidità decido che magari è meglio evitare di dare la colpa al maledettissimo profumo, la signora è pur sempre neurotipica e non vorrei la prendesse sul personale. Invento una scusa, dico che ho dormito male, poi qui c’è rumore, i miei sensi sono particolarmente acuti. Per fortuna se la beve.

Alla fine l’episodio ha avuto la sua utilità, perché nonostante le continue interruzioni sono riuscito a tirare fuori uno spiegone sui sensi degli autistici e su quanto sia difficile per chi è nello spettro fare cose apparentemente normali quando mantenere la concentrazione diventa una lotta contro se stessi. Il progetto va in porto, tutti felici, io contento ma già ridotto ai minimi termini alle 11 del mattino.
In momenti come questo penso sempre a tutti quelli che mi dicono che l’asperger (l’autismo ad alto funzionamento, quello che “non è possibile perché non si vede”) è un’invenzione, che se uno riesce a passare più o meno inosservato vuol dire che gli è “guarito” e quindi non ha il diritto di lamentarsi.

Mi tornano in mente tutte le volte in cui mi sono sentito umiliato, anche dagli amici, per aver espresso la necessità di rimanere da solo, per aver avuto un meltdown dopo un pomeriggio in mezzo alla folla o per essermi lamentato dei vicini rumorosi come fosse un capriccio, un vezzo. Ovviamente se per te è del tutto normale andare al centro commerciale a fare shopping e la musica, le luci e gli odori, la folla urlante non rappresentano assolutamente un problema, i miei comportamenti appaiono quanto meno da squilibrato.

E, come in un gioco dell’oca infernale, torniamo sempre alla casella di partenza: le differenze nel modo di percepire e relazionarsi al mondo sono una parte fondamentale dell’autismo, e una buona parte dei nostri problemi sono il risultato dell’interazione con questo mondo per molti aspetti non particolarmente ospitale. Se veramente si vuole comprendere il perché di certe reazioni bisogna provare a immaginare come ci si può sentire in questi momenti. Per capire quanto a volte sia difficile per un autistico fare cose che per gli altri sono ordinarie, come andare a lavorare, assistere a una riunione o a un pranzo di lavoro, bisogna rendersi conto che proprio perché quelle situazioni sono ritenute normali, mentre per noi possono trasformarsi in una corsa a ostacoli, tutto diventa estremamente complicato. Soprattutto se poi uno è costretto a reprimersi, a indossare la maledetta maschera ogni santo giorno riservando i momenti di sfogo e di recupero (che possono essere tutt’altro che piacevoli) ai mariti, alle mogli, ai figli o al gatto una volta tornati a casa.

Perché quella subdola idea che continua a strisciare lì fuori, la convinzione che noi autistici dovremmo necessariamente adattarci al mondo circostante e alle aspettative della società, è essa stessa parte del problema. L’ho detto e scritto tante volte: sono convinto che tante “stranezze” non sarebbero tali se non ci venissero fatte notare continuamente, se il concetto di neurodiversità fosse compreso e assimilato.

Adesso sono finalmente a casa. Ho dovuto prendere la metropolitana perché la bicicletta si è rotta, ed entrare in metropolitana quando uno è in pieno sovraccarico sensoriale è un’impresa titanica, soprattutto perché si ha la costantemente paura di non farcela, di dover scappare fuori alla prima fermata se è troppo affollata, se qualcuno ha mangiato aglio o parla a voce troppo alta.

E mentre aspetto che la cena sia pronta, inevitabilmente, sopraggiunge il senso di frustrazione al pensiero di quanto stamattina fossi felice, di quanto mi fossi preparato per la riunione, e dell’entusiasmo che è svanito istantaneamente al primo sentore di quel profumo maledetto.

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