Aspiecool

Quest’anno sono di moda la fantasia leopardata, i cibi alla cannabis e, a giudicare dal mormorio che ultimamente l’argomento sta generando soprattutto sulle reti sociali, sembra che essere Asperger (o autistico ad alto funzionamento, ma questa diatriba è fonte di ben altri scontri assai accesi) sia al momento piuttosto trendy.

Ora non è per tirarmela, ma io di questa cosa ne ho scritto già un bel po’ di tempo fa su Eccentrico. I segnali erano più che visibili già mesi e mesi fa, quando ho scritto il capitolo sul nuovo stereotipo dell’autistico che viene proposto da serie televisive e film.
Effettivamente ci siamo lamentati tanto di essere stati identificati per anni con Rain man, ma non è che la cosa adesso sia migliorata. Oggi l’asperger (quando è detto apertamente) della televisione è un tipo abbastanza asociale, un po’ strambo ma che compensa con un’intelligenza incredibile. Cioè che se sei un autistico cognitivamente nella media non corrispondi al modello propagandato e quindi continuerai a essere uno sfigato.

Secondo me bisogna fare molta attenzione, e questo per differenti motivi.

Se davvero “Aspie is the new gay”, allora come appartenente a entrambe le minoranze non posso che godermi il mio secondo momento di gloria. Come – dicono –  sia stato figo avere un amico gay spesso pittoresco nell’abbigliamento e nei modi, disinibito e divertente, adesso secondo questa visione della cosa, sarebbe diventato esotico l’amico Aspie.

Forse perché non sono mai stato particolarmente divertente nemmeno quando pensavo di essere solo gay, ma io tutta questa gente che mi vedesse come un oggetto culturale, un amico per rallegrare le tristi e grigie serate d’inverno col suo abbigliamento variopinto e l’umorismo irresistibile, non l’ho trovata. Probabilmente perché non rientravo nello stereotipo del gay televisivo propagandato da serie come Will & Grace o Modern family.

Ed è qui che volevo arrivare: confondere il fatto che la televisione abbia costantemente bisogno di modelli su cui canalizzare l’interesse del pubblico con l’essere diventato di moda, è un errore. E’ ovvio che per vendere una serie non puoi infilarci un protagonista apatico, o che ha crisi di rabbia costanti, che non ha una gran vita sociale e trascorre ore e ore a occuparsi di interessi tanto avvincenti come i sistemi d’allarme o l’estetica della musica barocca (ho fatto entrambe le cose, giuro). Bisogna abbellire la realtà, trovare il lato interessante, magari inventare un personaggio che ispiri ammirazione, anche invidia. O che almeno faccia simpatia.

Il fatto che oggi di autismo (almeno ad alto funzionamento) se ne parli molto di più, non implica necessariamente una migliore comprensione della neurodiversità, soprattutto se consiste semplicemente nel passaggio da uno stereotipo vecchio a uno nuovo.

Non siamo di moda, semplicemente una nostra versione un po’ grottesca o come minimo edulcorata, privata di tutte le caratteristiche poco gradevoli, è di moda. E le mode, per definizione, sono effimere, cambiano appena gira il vento.

Essere Aspie (o autistici) non è di moda perché, nell’immaginario collettivo di oggi, significa solamente una intelligenza fuori dal comune, delle abilità speciali in qualche campo e un carattere introverso, e questo a prescindere dalle serie TV. Non è un caso che le autodiagnosi fiocchino come neve d’inverno. L’autismo si è evoluto (per fortuna, secondo me) in uno spettro che include una varietà enorme di comportamenti e caratteristiche, molti dei quali comuni a tutta la popolazione. Di queste caratteristiche la televisione, la stampa e il cinema espongono in larga parte solo quelle più affascinanti, nascondendo per ovvie ragioni quelle meno accattivanti o comunque imbellettandole. Noi autistici ad alto funzionamento stiamo piano piano uscendo allo scoperto raccontandoci, e questo contribuisce ad aumentare il volume della discussione intorno all’argomento.

Tutto questo, però, non sta necessariamente portando a una comprensione migliore di questa condizione, ma semplicemente all’accettazione di una sua piccola parte. Inoltre bisogna considerare che noi autistici parliamo tanto di autismo, facciamo parte di forum, gruppi, leggiamo libri e andiamo a meeting e conferenze. E’ ovvio che poi abbiamo l’impressione che il mondo parli solo di noi, ma nella realtà non è proprio così.

Per lavoro mi trovo a contatto con persone autistiche e con le loro famiglie quotidianamente, e con la stessa frequenza vedo come la maggiore diffusione di notizie sull’autismo non corrisponda affatto a una migliore conoscenza. Nell’università per cui lavoro, la più importante della città, c’è un master sull’autismo. Le lezioni si svolgono nel nostro stesso corridoio, gli stessi giorni, per cui spesso mi capita di ascoltare i docenti e gli allievi che parlano di me, di noi. E verrebbe voglia di prenderli a capocciate, di entrare in classe e dirgli: guarda, stai parlando di me, stai sparando una marea di cazzate. Ovviamente mi guardo bene dal farlo, ci manca solo un altro Aspie disoccupato. Ma il problema è che da quel master, come da tanti altri corsi e corsetti di dubbio livello, escono persone che lavoreranno con autistici, e che contribuiranno a diffondere un modello sbagliato, stereotipato e dannoso.

La vera moda non è tanto essere Aspie, la tendenza più pericolosa è quella di fare corsi a cazzo sull’autismo per sfruttare economicamente una condizione che  appare in aumento (in parte per un errore di interpretazione), seminando il panico tra la popolazione e proponendo l’autistologo come figura che non conoscerà mai crisi. Non so bene quale sia la situazione italiana ma qui sta succedendo, e certi giorni mi sale una rabbia tremenda.

Ieri mattina, per conto dell’università, sono andato a parlare con una grossa associazione che si occupa di autistici ad alto funzionamento e di assistenza alle famiglie. Mi guardavano come un marziano, ascoltavano quello che dicevo come se fosse la prima volta che sentivano parlare una persona in modo sereno e pacato di se stessa. Il fatto che lavorassi come docente universitario e, peggio ancora, come coordinatore di un master gli è sembrato tanto assurdo da ripetere più volte cose come: «Quindi tu lavori alla UB?», «Ma sei proprio coordinatore?» e la più divertente: «Ma come fai a dare lezioni?» nemmeno si trovassero davanti a un batterio. Io ero lì, obbligato a cercare con loro una collaborazione mentre immaginavo il tipo di “assistenza” che queste persone possono dare alle famiglie o agli stessi autistici, di cui hanno dimostrato di non sapere una cippa.

Le mode, belle o brutte, passano e anche in fretta. Quello che può apparire affascinante in un determinato momento, anche grazie al maquillage dei media, dopo un po’ stanca e diventa normale o peggio ancora noioso. Le tendenze sono effimere ma le persone rimangono, e con loro i problemi, le aspirazioni e i bei momenti; onestamente mi interessa poco se si parla delle persone come me (autistiche, asperger, come vi pare) come di gente “cool” per qualche tempo, posso anche godermi l’ingannevole sensazione di piacere.

Quello che realmente mi sta a cuore è che al di là delle mode si parli per davvero di inclusione, che si costruisca un dialogo basato sul rispetto dell’altro, che si eviti il rischio di una autoghettizzazione tanto facile quanto pericolosa in cui ce la cantiamo e ce la suoniamo tra di noi, mentre lì fuori continuano a parlare e decidere cosa noi dobbiamo essere.

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