Melting down.

Eroicamente, o forse dovrei dire superficialmente, tornato da una settimana di presentazioni, dopo aver dormito ogni notte in una città diversa e senza la mia routine rassicurante, ho creduto che la mia capacità di resistenza allo stress fosse aumentata miracolosamente all’improvviso.

Venerdì pomeriggio torno a casa a Barcellona. Il giorno precedente in particolare è stato abbastanza stressante: al mattino treno da Firenze, poi arrivo a Roma, metropolitana affollatissima, gomitate dappertutto, rumori, gente che mi alita addosso stile respirazione bocca a bocca. Corro alla Rai per l’intervista a Fahrenheit. Figo, stupendo. Non sei contento? Certo, orgogliosissimo! Ma anche stanco, tesissimo, bocca secca, pensieri lenti.

Finisce l’intervista e cercando di stare dietro al cellulare che sembra voler esplodere mi rimetto in metropolitana. Stavolta c’è pure un cambio a Termini. L’inferno: entri ed esci direttamente sospinto dalla folla e non è proprio il massimo, se il contatto fisico con gli sconosciuti ti manda in tilt. Poi mezz’ora a piedi cercando di seguire il navigatore per non perdermi, perché ho i minuti contati, e finalmente arrivo in libreria per l’ultima presentazione.

Sabato mattina sensazione di spossatezza: la notte precedente ho dormito probabilmente tre ore. A causa di esemplari ubriachi e molesti della specie umana che da un po’ di anni invadono Barcellona, le notti sono diventate molto pittoresche, tra le pisciate nei portoni e gli angoli delle strade abbelliti da pozze di vomito, il tutto inframezzato da urla disumane e canzoni stonate. Dormire è piuttosto complicato. Cercando di tenere gli occhi aperti volo verso l’università per una riunione mattutina, visto che la settimana precedente non c’ero e mica si poteva aspettare il lunedì.

Domenica tentativo di riposo frustrato, il nervosismo aumenta, crescono l’insofferenza e la tensione muscolare. Più cerco di riposare e più sento la pressione aumentare, qualcosa dentro di me grida vendetta, il mostro non vuole accontentarsi di una sola giornata di riposo.

Lunedì mattina altra riunione all’università, per risolvere tutte le “cosette” rimaste in sospeso durante la mia settimana in Italia. Il pensiero che non abbiano fatto una mazza in mia assenza presentandomi semplicemente una lista di problemi da risolvere mi fa incazzare ancora di più.

Finita la riunione, ancora più teso e stanco, sento Maurizio che dice: “Mi accompagni a cercare un giubbotto al centro commerciale?”. Posso mica dirgli di no, dopo che una stronza il giorno prima ha deciso di lavare il balcone con la candeggina, chiazzandogli il giubbotto che adesso pare leopardato.

Eppure avrei dovuto prevederlo, i segnali c’erano tutti: la tensione, la stanchezza, i giorni precedenti in viaggio (e sarebbe bastato già quello), il ritorno senza riuscire a riposare… e invece decido di fare l’eroe. Forse ho sopravvalutato le mie capacità, e non sarebbe la prima volta. D’altra parte è un cane che si morde la coda: sei stanco, teso, i sensi cominciano a saturarsi e la stanchezza ti offusca la mente. Allora fai cose che dovresti evitare, tipo una riunione appena dopo essere tornato da un viaggio stressante o andare al centro commerciale.

Gente, tanta gente, troppa. Scala mobile, luci sparate direttamente negli occhi; luci che pungono come spilli. E anche le voci, pungono come spilli, e la musica. Maledettissima musica di sottofondo che sembra spostarsi sempre più in primo piano.

Cerchiamo i giubbotti. La mia utilità al momento è pari a quella di un sacco di patate, e la cosa comincia a essere palese anche da fuori.

Stai bene? Domanda. Scuoto la testa, non sto proprio bene. Forse è il caso di correre a casa, mi dice, forse non dovevi venire… eh no, forse non dovevo andare. Nel frattempo, mentre prende la busta col giubbotto dalle mani della commessa (lentamente, troppo lentamente, un gesto di una lentezza esasperante) la cantante in sottofondo comincia a stonare. Una canzone brutta mai sentita prima cola dagli altoparlanti come catrame. La voce solista è fastidiosamente calante, non molto, quel poco che rende la stonatura con gli strumenti una pugnalata nei timpani. La maledetta continua a strillare, anzi adesso cerca di prendere note sempre più alte, ed è sempre più stonata. Sento un brivido percorrermi la schiena. Un brivido molesto.

Siamo fuori. Al semaforo un bambino lancia un urlo e parte un altro brivido lungo schiena; stavolta i muscoli si contraggono in uno spasmo. Il semaforo è infinito, il verde sembra non arrivare mai. Clacson, brivido; donna che parla al cellulare, brivido; luce sparata dalla vetrina del negozio, brivido. Colpo di tosse di uno sconosciuto a pochi centimetri dal mio orecchio. Salto come se mi avessero sparato in pieno petto.

Casa è ormai vicina ma comincio a dubitare di farcela. Sbarello, inciampo ogni tre passi, respiro a fondo ma non serve a una mazza, il cuore è un kalashnikov impazzito, ogni rumore un pugno in faccia, guardo fisso per terra. Mi domando cosa vedano di me gli altri, quanto di quello che mi si è scatenato dentro traspare fuori. Decido che me ne fotto.

Maurizio non dice niente, sa che è meglio così. Una parola potrebbe innescare la miccia, e forse ancora possiamo farcela. Mi sdraio sul letto, mi copre col piumone. Attacco la musica a volume basso, rilassante, dolce, soprattutto intonata. Chiudo gli occhi, so che mi sta accanto, va bene così. La tensione è altissima ma la stanchezza sta vincendo. La musica mi fa scendere verso il basso, verso l’oscurità. Mentre mi addormento rivedo spezzoni del viaggio, i volti della gente che ondeggiano con la musica, i luoghi, gli odori. Tutto galleggia insieme alla musica. Stavolta ce l’abbiamo fatta in tempo.

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