Catcalling e pezzi di puzzle

un pezzo di puzzle con la fotografia di un gatto

Da qualche giorno, nella mia rassicurante e un po’ monotona echo chamber di Facebook, si sono moltiplicati scritti e commenti su due questioni apparentemente distanti ma in realtà molto simili: da un lato il discorso sul ‘catcalling’ e dall’altro la polemica sui simboli che dovrebbero o meno rappresentare le persone autistiche.

E che c’entra un richiamo sessuale, anzi una molestia, con la rappresentazione di una condizione di neurodivergenza come l’autismo? C’entra perché entrambe presuppongono l’inferiorità delle persone o dei gruppi a cui si riferiscono.

Un uomo che fischia o fa versi a una donna per la strada col fine di attirarne l’attenzione, dà per scontato che alla donna DEBBA far piacere essere richiamata come un cagnolino, che DEBBA sentirsi lusingata nell’essere trattata come un oggetto da parte di uno sconosciuto. Perché fondamentalmente questi sono stati gli argomenti che ho letto a favore di una pratica del genere. Io, uomo, nonostante siano molteplici le voci femminili che dicano il contrario, continuo a sostenere che è una cosa da nulla, che non vale la pena offendersi, insomma, che i problemi sono ben altri e quante storie per un fischio e un paio di “Aaa bellaaa”. La tua opinione, donna, per me non conta.

Allo stesso modo si è manifestato il paternalismo (concetto che presuppone l’incapacità dell’altro di sapere cosa sia meglio per sé) con cui molte associazioni e mezzi di comunicazione hanno in alcuni casi ignorato, in altri direttamente attaccato frontalmente, le istanze delle persone autistiche nei giorni scorsi. E dire che gruppi di individui neurodivergenti e singolǝ chiedevano solo di poter dire la loro sui simboli che lǝ rappresentano nella giornata mondiale dedicata alla condizione che vivono in prima persona. Anche in questo caso, che ne sapiamo noi autistiche e autistici? In fondo dovremmo solo ringraziare per quel giorno all’anno di visibilità, e invece ci lamentiamo del blu, dei pezzi di puzzle, critichiamo le descrizioni a volte strappalacrime e altre volte motivazionali che vengono fatte di noi, l’uso di un linguaggio bellico oppure del dolore, di un idioma che ci mostra come creature difettose e sofferenti.

Poi ci si stupisce che ogni tanto salti fuori il discorso sui privilegi, sul patriarcato, su quanto la nostra società sia basata su principi che, di fatto, garantiscono il potere decisionale a una minoranza numerica che però si autodefinisce maggioranza e come tale agisce stabilendo cosa sia meglio per gli altri e per le altre.

Perché alla fine è un privilegio poter decidere che fischiare e apostrofare una donna per la strada sia normale o addirittura lusinghiero, che sia un diritto e nessuna debba lamentarsi. Ed è un privilegio poter decidere quale narrazione e quali simboli affibbiare a un gruppo di persone nonostante il loro chiaro rifiuto.

E se invece una volta per tutte accettassimo che le persone chiamate in causa sanno cosa dicono? Se smontassimo questa idea assurda per cui la parola di alcune vale meno di quella di altri? Se accettassimo il fatto che no vuol dire no, che se una cosa mi offende o non mi rappresenta allora forse non va più fatta o detta, va cambiata anche se a qualcuno piaceva farla o dirla? Perché il discorso poi è sempre quello, diciamocelo: pur di non rinunciare a ciò che ci diverte, a cui ormai ci siamo abituatǝ, preferiamo offendere, danneggiare, molestare l’altrǝ.

Leave a reply:

Your email address will not be published.

Site Footer