Di condizioni e di patologie

Ieri sera, in un gruppo online sull’autismo, mi sono sentito dire per l’ennesima volta che l’autismo è una “patologia” e, quando ho specificato che non lo è, come in tante altre occasioni mi è stato risposto con leggerezza che è uguale: «Che cambia tra patologia e condizione?». E allora vediamo un po’ se davvero non cambia nulla, e quanto sia superficiale l’affermazione per cui una parola vale l’altra.

Patologia: s. f. [comp. di pato- e -logia]. – 1. Lo studio dei problemi relativi alle malattie dell’uomo (p. umana) e degli animali (p. veterinaria) […] Nella pratica medica, il termine è adoperato anche con sign. più generico, per indicare una malattia in atto, uno stato patologico, una condizione di sofferenza dell’organismo. […] [1]

Condizione: […] 2. a. Stato fisico, morale o finanziario di una persona […] c. Con senso più ampio, riferendosi all’essere o al modo di essere, alla natura, alla qualità di una persona o di una cosa […] e. Situazione, stato generale […] [2]

Come nel gioco della Settimana Enigmistica, adesso cerchiamo le differenze tra la prima e la seconda definizione. Leggiamole ancora una, due o tre volte e proviamo a comprendere nei dettagli quanto profonda sia la differenza di significato tra il termine “patologia” e la parola “condizione”.

Se io penso a una “patologia” mi viene in mente qualcosa che ha a che fare con l’ambito medico; patologico può essere uno stato di salute compromesso ma, soprattutto, è abbastanza facile l’associazione all’idea di “sofferenza”. Mia madre ad esempio ha “sofferto” per oltre 15 anni di una “patologia” cronica per la quale entrava e usciva dall’ospedale. In questo caso il verbo “soffrire” è utilizzato intenzionalmente, perché ricordo benissimo quanto la sua malattia, indipendentemente da cosa noi familiari potessimo fare, dal luogo o dalle condizioni culturali nelle quale lei si trovasse, era fonte di dolore fisico e profonda sofferenza psicologica.

Cosa accade invece se penso alla parola “condizione”? Mi rendo conto adesso che a tale termine non associo nessun sentimento particolare. E infatti, se rileggiamo la definizione di questo vocabolo, notiamo che a esso non è associata alcuna sensazione, nessun giudizio positivo o negativo. Questo non significa che una “condizione” sia migliore di una “patologia”, con questa distinzione vorrei solo mostrare che le difficoltà (e anche eventualmente sofferenza) che possono accompagnare sia una condizione che una patologia hanno cause diverse. Queste possono essere spesso implicite nella patologia stessa (dolori fisici, procedure invasive, ad esempio) mentre nella condizione autistica sono per lo più conseguenza dell’interazione con la società neurotipica, e questa differenza è fondamentale nella creazione di una narrazione rispondente alla realtà.

Le parole hanno diversi significati. Il primo è forse più condiviso, anche se non tutti conosciamo a memoria le definizioni del vocabolario. Se non fosse così, non potremmo comunicare nemmeno ai livelli più basilari come ad esempio per fare la spesa.

Immaginate se le parole non avessero un significato comune a tutte le persone di un determinato ambito culturale o territoriale (non necessariamente le due cose coincidono): vado al mercato per comprare delle orate ma, dall’altra parte del bancone, alla mia richiesta il commesso prende un polpo. Io gli direi: «No, non un polpo, un’orata!», indicando la cassetta di plastica con le orate. E lui, incerto, potrebbe rispondermi: «Ma queste? Scusi, come le ha chiamate? Orate? Ma queste si chiamano “ovali”!».

Le parole alterano però la percezione che abbiamo della realtà, anzi, costruiscono il nostro mondo. Si uniscono fino a formare “concetti”, e quei concetti creano il nostro modo di vedere le cose, i nostri pensieri, chi siamo, come agiamo e reagiamo. Esse portano quindi con sé anche un significato che non è solo letterale ma va al di là delle semplici definizioni: ogni vocabolo racchiude un significato emotivo, e quell’emozione contribuirà a colorare in modo differente la nostra realtà. L’emozione associata a determinate parole può essere tanto personale, intima, quanto culturale, formare cioè uno stereotipo che definirà anche emotivamente un concetto per tutte le persone appartenenti a una determinata cultura.

Se dico “prato” istintivamente penseremo a uno spazio aperto, al verde, probabilmente al profumo dell’erba appena falciata o dei fiori; immagineremo qualcosa di rilassante. Eppure la parola “prato” definisce solo un terreno ricoperto d’erba e sul dizionario non troveremo la sensazione di serenità e libertà che ci richiama alla mente. Lo stesso avviene se dico “traffico”: penseremo al rumore dei motori, ai clacson, all’odore degli scarichi, al rimanere bloccato quando sono in ritardo per un appuntamento e immediatamente scatta l’ansia, il cuore prende a battere veloce. Ma, anche in questo caso, si tratta solo di una definizione.

Una parola racchiude un mondo, può modificare la percezione che abbiamo di un’intera situazione e farci decidere di votare per un candidato o per l’altra, di farci dichiarare l’imputato colpevole o innocente, una parola piazzata strategicamente in una pubblicità può significare la fortuna o la rovina di un’azienda. Le parole sono molto, ma davvero molto più di semplici definizioni.

Sappiamo ad esempio che il significato emotivo associato a una parola genera cambiamenti misurabili a livello cerebrale nel modo in cui processiamo il linguaggio[3].O che determinate parole associate a emozioni specifiche come “orgoglio” e “delusione” generino dei cambiamenti evidenti e incoscienti nella nostra postura, per cui se pensiamo o generiamo vocaboli associati al concetto di delusione, la nostra schiena tenderà ad abbassarsi curvandosi nella tipica immagine della persona triste che cammina afflosciata a testa e spalle basse[4].

Anche la percezione visiva delle emozioni sembra abbia bisogno di basarsi su categorie, ossia su concetti formati da parole, divenendo il linguaggio un contesto essenziale nell’elaborazione delle emozioni anche quando espresse in modo non verbale, come l’interpretazione delle espressioni facciali. E questo perché le emozioni di per sé non sono altro che categorie nelle quali raggruppiamo concettualmente (categorie create artificialmente e quindi soggette alle differenze sociali e culturali del tempo e del luogo) una serie di sensazioni fisiche[5]. In pratica, senza l’aiuto delle parole noi proveremmo un flusso costante di sensazioni alle quali non sapremmo dare un nome, e non saremmo nemmeno in grado di esercitare un controllo su tali sensazioni non potendole raggruppare in emozioni definibili e catalogabili anche socialmente e culturalmente.

Il problema quindi è duplice: da un lato c’è l’associazione a un ambito – quello medico – di una condizione come l’autismo che di per sé non presenta tratti patologici (che possono presentarsi in concomitanza con l’autismo), accostamento fuorviante per gli stessi autistici, per le famiglie e la società, e che crea una narrazione non rispondente alla realtà di questa condizione con conseguenze che possono influire anche sulla tipologia di supporto eventualmente necessario.

Il secondo problema ha a che fare con l’idea stessa di patologia, ossia quell’accostamento al dolore, alla sofferenza e a qualcosa di negativo a cui ho accennato all’inizio. Anche questo è uno stereotipo, una generalizzazione, e come tale non necessariamente corrisponde alla realtà perché non descrive ogni singola persona. Questo stereotipo associato al concetto di patologia porta con sé l’idea che una caratteristica o un modo di essere (in questo caso mi riferisco all’autismo, ma il discorso vale per qualsiasi condizione, incluse le patologie stesse) sia problematico e generatore di sofferenza di per sé, sollevando la società dalla propria parte di responsabilità nella creazione e nel mantenimento di barriere architettoniche, sociali, sensoriali e psicologiche e di stereotipi che contribuiscono in modo maggiore o minore alle difficoltà che determinate persone si trovano ad affrontare quotidianamente.

Non mi stancherò mai di ripetere quanto sia fondamentale l’importanza dell’impatto che il linguaggio ha sulle persone, e quanto l’uso di una parola invece di un’altra può cambiare la percezione che l’intera società ha di una persona o di una situazione. Quindi, se da un lato è importante renderci conto che esiste una differenza sostanziale tra una patologia e una condizione, dall’altro dobbiamo forse riconsiderare lo stereotipo stesso che nel nostro immaginario può suggerire la malattia come qualcosa di negativo. Ci tengo anche a specificare che questo non equivale a una censura, nulla di più lontano, ma è un invito ad assumersi le proprie responsabilità nel momento in cui si decidesse coscientemente di utilizzare definizioni ritenute offensive o indesiderate da una parte della popolazione.

Insomma, se mi si definisce sofferente e di questa sofferenza inoltre ci si lava le mani attribuendola direttamente al mio modo di essere e non all’esclusione che tale definizione genera, non ci si meravigli poi della reazione che potrei avere. Ciascunə, che lo desideri o meno, è responsabile della società che in ogni istante contribuisce a creare anche attraverso l’uso del linguaggio, che può diventare a seconda dei casi tanto uno strumento di costruzione quanto di distruzione.

NOTE:
[1] https://www.treccani.it/vocabolario/patologia/
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/condizione/
[3] Palazova, M., Mantwill, K., Sommer, W., & Schacht, A. (2011). Are effects of emotion in single words non-lexical? Evidence from event-related brain potentials. Neuropsychologia, 49(9), 2766–2775. doi:10.1016/j.neuropsychologia.2011.06.005
[4]Oosterwijk, S., Rotteveel, M., Fischer, A. H., & Hess, U. (2009). Embodied emotion concepts: How generating words about pride and disappointment influences posture. European Journal of Social Psychology, 39(3), 457–466.
[5] Barrett, L. F., Lindquist, K. A., & Gendron, M. (2007). Language as context for the perception of emotion. Trends in Cognitive Sciences, 11(8), 327–332.

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