Il concetto di normalità fu sviluppato tra la fine del 1700 e la prima e la metà dell’ottocento. L’astronomo e statistico belga Adolphe Quetelet ebbe l’idea di utilizzare la statistica per misurare e quantificare processi e caratteristiche umane, dando vita al concetto di “uomo medio”. Prima di lui non ci aveva pensato nessuno, non si riteneva possibile ridurre e ingabbiare la complessità dell’esperienza umana in categorie discrete basandosi esclusivamente su alcuni elementi specifici.
Questo concetto fu poi perfezionato da Francis Galton, cugino di Charles Darwin, che si spinse parecchio più in là e mescolando statistica ed ereditarietà, creò l’eugenetica, ideale abbracciato con entusiasmo anche da tanti insospettabili. Si parte quindi da un concetto descrittivo, cioè dalla misurazione della frequenza con cui determinate caratteristiche si presentano in uno specifico gruppo di persone, per arrivare a un ideale prescrittivo che suddivide l’umanità in individui desiderabili e indesiderabili e cerca di favorire i primi (i desiderabili) rispetto ai secondi (gli indesiderabili), che venivano in alcuni casi isolati dalla società, a volte anche fisicamente reclusi, sterilizzati, eliminati.
L’impronta paternalistica dell’ideale di normalità diviene ancora più evidente nel momento in cui “normale” diventa anche sinonimo di “sano”, per cui tutto ciò che non rientra nei canoni sempre più rigidi di questa categoria viene ulteriormente stigmatizzato. I “folli”, gli “idioti”, gli “storpi” ma anche gli omosessuali (categoria nata verso la fine del 1800) diventano soggetti da escludere e riabilitare, da ricondurre a quella normalità perduta o della quale non hanno mai fatto parte.
L’ideale di “normalità” è il frutto di un momento storico particolare: è il periodo della burocratizzazione degli stati, dello sviluppo di una produzione industriale di massa, dello spostamento di moltitudini di persone verso le città e dello sviluppo della scienza. Diviene necessario poter controllare la società, sviluppare politiche in grado di gestire le masse, ridurre gli attriti e reprimere le voci fuori dal coro.
Oggi però le cose sono cambiate. La nostra società è diversa da quella di duecento anni fa, le battaglie per i diritti civili e individuali delle persone hanno da tempo mostrato l’inadeguatezza di questo ideale imposto di “uomo medio”, creato tra l’altro a partire da un prototipo che non è mai stato rappresentativo della variabilità e complessità umana: il maschio, bianco, cisgender, eterosessuale e neurotipico. Inoltre, la tecnologia ci ha rapidamente catapultato in una nuova era nella quale sempre più persone hanno finalmente la possibilità di far ascoltare la propria voce, contribuendo a una narrazione collettiva che non assomiglia in alcun modo a quella rigida, retrograda idea di normalità a cui ancora troppe persone fanno riferimento come se esistesse davvero.
Oggi si celebra la giornata mondiale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. C’è chi dice che le giornate a tema non servono; in genere a dirlo sono proprio quelle persone che non hanno bisogno di conquistarsi il diritto di esistere, di essere creatrici della propria narrazione, sono coloro che non devono temere per la propria vita e non si vedono negato il diritto di non essere escluse, bullizzate, insultate, discriminate per colpa di un ideale, quello di normalità, che divide, che crea esseri umani superiori e inferiori, desiderabili e indesiderabili.
Oggi si celebra l’umanità, la diversità anche sessuale e di genere; si celebra la libertà di essere chi si è: persone, ciascuna con le proprie differenze e peculiarità, con le proprie aspirazioni, desideri, progetti di vita.