Come (non) fare comunicazione

Avevo in mente un altro post per oggi, volevo scrivere di simboli, del blu e dei pezzi di puzzle mancanti, e di quanto questi simboli associati all’autismo non siano mai stati scelti dalle persone autistiche né da essi ci sentiamo rappresentate.

Insomma, avevo in mente di continuare a parlare di autorappresentanza, ossia quel diritto che le persone appartenenti alla cosiddetta maggioranza danno per scontato – e del quale spesso nemmeno sospettano l’esistenza – che consiste nella possibilità di rappresentare se stesse, di scegliere come essere definite.

Poi ieri, mentre lavoravo, mi sono imbattuto in una serie di post di un’associazione che si definisce “in difesa dei soggetti autistici”, un’associazione di genitori che ha deciso di effettuare una campagna di comunicazione in vista del 2 aprile attraverso un “messaggio volutamente forte e crudo”. E il messaggio, forte e crudo sicuramente ma anche poco comprensibile, è il seguente:

E’ covid? No, è autismo”.

 E via una serie di cartelloni pubblicitari con le scritte più assurde come: “In vacanza, non puoi andare in luoghi troppo affollati. È COVID? No, è Autismo”, oppure: “Non puoi abbracciarmi o baciarmi. È COVID? No, è Autismo”.

Secondo le parole dei promotori di questa campagna, si tratta di: “Un paragone naturale, ma evidentemente non per ragioni di tipo medico o scientifico, come qualcuno può avere erroneamente pensato, bensì per i motivi che accomunano alcuni aspetti e risvolti della pandemia alla condizione sociale delle famiglie che vivono e convivono ogni giorno con questa condizione.” E adesso io sfido chiunque a dire che accostare l’autismo al COVID non sia la cosa più naturale del mondo!

Tralascio il resto del messaggio, lo stereotipo insopportabile della bolla in cui saremmo rinchiusi, il lessico bellico della battaglia per una corretta informazione (paradossale, in questo caso); insomma, non voglio infierire su una campagna di comunicazione riuscita evidentemente malissimo. Né mi soffermerò sul fatto che abbiano sistematicamente cancellato dalla loro pagina le centinaia di commenti (compresi i miei) di chi faceva notare quanto fosse assurda una campagna del genere e quanto il messaggio veicolato era estremamente dannoso per le persone autistiche e le loro famiglie.

Quando ho cominciato a scrivere questi brevi articoli per il 2 aprile dicendo che saremmo stati investiti da una valanga di disinformazione, di stereotipi sbagliati, che noi persone autistiche non avremmo avuto la possibilità di autorappresentarci, mi riferivo anche a situazioni come questa, al limite del grottesco.

Una situazione in cui noi, dirette interessate, le persone autistiche di cui si fregiano di essere difensori, coloro di cui hanno deciso di parlare in una campagna di sensibilizzazione (e uso questa parola con molta difficoltà), non solo non siamo state consultate, ma quando abbiamo fatto notare che quei messaggi non ci rappresentano, siamo state ignorate, anzi, cancellate.

Ecco il motivo per cui sostengo che l’inclusione è spesso un processo sbilanciato e viziato. Perché la maggioranza, la cosiddetta normalità, ha il potere di decidere non solo se e come includere le minoranze, ma addirittura quale debba essere la loro identità creando una narrazione filtrata da stereotipi e convinzioni personali.

Questa non è una situazione isolata, seppure parecchio estrema. Ogni volta che veniamo rappresentati da un pezzo di puzzle mancante come un enigma irrisolvibile o come esseri a cui manca qualcosa, ci viene negato il diritto a esistere. Quando ci viene imposto di soffrire per essere chi siamo o quando qualcuno decide che esiste un sol modo di rapportarsi al mondo, una sola socialità, non esistiamo. Quando leggete che noi siamo esclusivamente una collezione di deficit e difetti, noi smettiamo di esistere. Diventiamo quello che una parte della società a maggioranza neurotipica crede che dobbiamo essere.

Oggi più che mai è necessario darci ascolto. Noi autistiche e autistici non viviamo in una bolla, non siamo pezzi di puzzle, non siamo blu come puffi e no, non potete fare paragoni fuorvianti perché, anche volendo immaginare le buone intenzioni, il messaggio che passa paragonando i comportamenti autistici alle conseguenze della pandemia è che l’autismo sia una tragedia. Il messaggio che emerge è che la nostra vita sia incompleta come incompleta è la vita delle persone durante un lockdown.

Noi autistiche e autistici non possiamo permettere di essere cancellate, non possiamo più osservare in silenzio che la nostra identità venga dipinta a tinte fosche o con pennellate approssimative.

 

Il 2 aprile, per moltissime persone autistiche, rappresenta una giornata da dimenticare. In molti non leggiamo i giornali, non guardiamo la TV, alcune non accedono alle reti sociali per evitare di star male, perché campagne di disinformazione come quella di cui ho raccontato triggerano reazioni forti e, vi assicuro, spiacevoli.

Se davvero volete fare qualcosa per l’autismo nella giornata della consapevolezza, date la parola alle autistiche e agli autistici, leggete i loro contributi, ascoltate le loro voci, chiedete loro come preferiscono essere rappresentate.

Perché se questo non ci viene concesso nella giornata che dovrebbe rappresentarci, allora siamo davvero lontani anni luce da quella fantomatica inclusione di cui tanto si parla.

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