Il cervello stanco

Il disegno di una persona dall'aria stressata che si porta le mani alla testa

Ho il cervello stanco. È una frase, anzi più che una frase è un’immagine che periodicamente mi rimbalza nella mente fin da bambino.

È una stanchezza difficile da descrivere perché è un miscuglio di sensazioni diverse e a volte anche opposte. È la testa che da un lato sembra gonfiarsi come un pallone fino quasi a esplodere, e dall’altro risucchia via ogni briciolo di forza, ogni volontà, tutta la motivazione necessaria anche solo a pensare di poter muovere un dito.

Sentire il “cervello stanco” significa non riuscire a star dietro ai pensieri, perché quando mi sento così i pensieri esplodono in una miriade di pezzettini che volano via veloci per non farsi afferrare.

Mamma, non posso andare a scuola, ho il cervello stanco. Mamma, non ce la faccio ad andare dalla nonna, non riesco ad andare al negozio a comprare la maglietta: ho il cervello stanco. Papà, adesso non riesco a studiare, ho il cervello stanco. E puntuale arrivava la risposta: «ma che significa che hai il cervello stanco? e poi non hai fatto niente di così faticoso, stanco per cosa?».

Eh, già, stanco per cosa? Proprio non riuscivano a immaginare cosa volesse dire sentire improvvisamente quella sensazione, come quando ti senti fisicamente spossato dopo una lunga corsa, ma nella mente. E non riuscivo a capire nemmeno io perché la mia testa si stancasse così, apparentemente senza motivo, semplicemente facendo cose che agli altri non sembravano creare problemi.

Andare a scuola mi stancava il cervello, certi giorni più di altri, dipendeva dal casino che facevano in classe o da quanto decidevano di prendermi di mira, o semplicemente dalle luci, dalla voce squillante dell’insegnante che rimbalzava sulle pareti creando un effetto devastante nella mia testa. E sedermi a tavola coi miei, anche quello a volte mi stancava il cervello perché parlavano sempre, e poi c’era la televisione accesa e allora per capirsi a volte urlavano, così dopo un po’ io sentivo che il cervello si stancava, che chiedeva pietà, un po’ di silenzio.

Da Bambino spesso uscivo con mia madre, il pomeriggio dopo la scuola. Quando andava per negozi era un incubo, perché lì il cervello si stancava immediatamente. Le luci dei negozi, l’odore della stoffa dei vestiti che mi prendeva a pugni nello stomaco e la gente che si muoveva veloce e parlava senza sosta. Poi, a un certo punto, si finiva quasi sempre da Daniele, un bar storico del Vomero sempre affollatissimo, e io non esplodevo in mille pezzi solo perché mamma mi comprava l’arancino al ragù, che miracolosamente riusciva per qualche minuto a tamponare la situazione. Solo che che dopo un po’ in quel bar affollato l’effetto dell’arancino svaniva, e puntuale ritornava quella spossatezza interiore, la sensazione del cervello stanco, e io cominciavo a dare in escandescenze.

Io non lo sapevo, in realtà non lo sapeva nessuno, che quelle crisi di rabbia o gli attacchi di mutismo fossero la conseguenza di un sovraccarico sensoriale, emotivo o a volte anche cognitivo, come succedeva spesso a scuola. Non immaginavo che quando cominciavo a sentire il “cervello stanco” era già troppo tardi e che sarebbe finita male, sempre. Certo, sarebbe bastato osservare quelle dinamiche sempre uguali, i luoghi affollati e il senso di stanchezza e poi BUM!, mi chiudevo in me per ore, oppure diventavo attaccabrighe, cercavo una scusa per litigare, per poter esplodere e urlare.

Sono passati tanti anni, una quarantina ormai, e quella sensazione continua a fare capolino. Solo che adesso so cos’è, il cervello stanco. È una riunione di lavoro in una sala con le luci al neon oppure una cena con gli amici, è camminare in centro nel casino con la gente che sembra passarti addosso; adesso so che il mio cervello si stanca per davvero quando trascorro troppo tempo sulle reti sociali – e per me anche 10 minuti sono troppo tempo – oppure se i vicini attaccano la musica a palla o se durante la giornata non riesco ad avere dei momenti in cui isolarmi dal mondo per ridurre la pressione.

Sono importanti, quei momenti, sono dei salvavita. A volte bastano pochi minuti al buio con la cappa della cucina accesa, che impedisce ai rumori del mondo di entrare e disturbarmi; oppure un quarto d’ora al pianoforte concentrandomi su ogni singola nota di una fuga di Bach, o una passeggiata al parco o mezz’ora disteso sul letto al buio. Basta davvero poco, è sufficiente spegnere il casino del mondo per pochi minuti e quella stanchezza si alleggerisce, lo senti nella testa.

O almeno, funziona quando non è troppo tardi, perché a volte anche volendo non puoi fermarti: che fai, non lavori? Non vai a scuola? Non hai contatti con questo mondo così veloce, così rumoroso e illuminato e profumato? Spesso devi andare avanti senza sosta per giorni, per mesi, e la tensione si accumula, la stanchezza si cronicizza. Allora il cervello si sveglia già stanco al mattino, una fatica tremenda affrontare la giornata, i nervi a fior di pelle e rimani lì distratto tutto il giorno. Bisogna fare molta attenzione a non arrivarci, a questo punto, perché poi è complicato uscirne e non bastano più pochi minuti di riposo, no: quando superi il punto di non ritorno ti accorgi davvero che qualcosa nella tua vita va cambiata, che se continui così non ne esci più.

Ma non è sempre possibile cambiare la propria vita in modo così radicale, come si fa se bisogna continuare a lavorare per pagarsi da vivere, o se si sta frequentando la scuola o l’università? E nemmeno posso aspettarmi che il mondo cambi per me, sarebbe davvero chiedere troppo. Però qualcosa forse si può fare, qualcosa che non richieda alla gente un grande sforzo ma che potrebbe essere di aiuto a tutte le persone a cui a volte si stanca il cervello, a chi ha dei ritmi e maniere di fare le cose differenti da quelli della maggioranza: rispettare il modo di essere delle altre persone.

Rispettare l’esistenza di funzionamenti neurologici differenti. Rispettare la possibilità che l’interazione col mondo così com’è strutturato possa mettere fuori uso alcune persone, e che questa reazione potrebbe non essere plateale ma non per questo meno problematica. Rispettare quindi la necessità di ambienti e interazioni gestibili in base al proprio modo di essere, la necessità di momenti di riposo. Rispettare il fatto che alcune persone si trovano a dover vivere in un mondo che non hanno potuto decidere come far funzionare, e non per questo debbono essere trattate come creature difettose, inferiori, o come piccoli disgraziati da compatire.

Il rispetto per ciò che non comprendiamo è alla base della convivenza e non costa molto, solo un piccolo sforzo. Esercitarsi a non minimizzare o banalizzare le richieste d’aiuto delle persone solo perché per noi una specifica situazione non è problematica, è un modo di rispettare le differenze. Provare a immaginare come ci si sentirebbe in un mondo che funziona al contrario rispetto al nostro modo di essere, potrebbe aiutare la comprensione e il rispetto di modi di essere differenti. Pensare che ciò che funziona per me non necessariamente funziona per te, e che questo non significa che tu sia migliore di me o io sia migliore di te, anche questo significa rispettare le differenze. Accoglierle ma senza paternalismo, responsabilizzarci reciprocamente per arrivare a poter convivere tutte e tutti in un mondo più accessibile. Questo non costa molta fatica se non la capacità di mettere in discussione la nostra normalità.

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