Una caratteristica che ha permesso alla specie umana di prosperare in ogni angolo del pianeta è la sua capacità da un lato di adattarsi al mondo e ai suoi mutamenti, e dall’altro di modificare anche profondamente l’ambiente in cui vive per assicurarsi la sopravvivenza anche in condizioni ambientali avverse.
Ragionando un attimo in termini riduzionisti, questa capacità ci permette di massimizzare la trasmissione del nostro DNA alle generazioni future. Adattarci e modificare l’ambiente anche grazie allo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate si è rivelato essere un vantaggio evidente su altre specie.
Noi esseri umani non abbiamo una particolare forza fisica (almeno non se paragonati a un elefante o a un gorilla), non abbiamo denti né artigli affilati adatti al combattimento, non corriamo veloce quanto un ghepardo e non siamo avvolti da una pelliccia naturale che ci protegge dal freddo. Insomma, tutto sommato avremmo dovuto estinguerci abbastanza rapidamente se non fosse stato proprio per lo sviluppo, apparentemente del tutto fortuito e di cui non possiamo attribuirci alcun merito, di un cervello estremamente complesso che ha dato vita alla meraviglia delle meraviglie: una coscienza in grado di riflettere sulla sua stessa esistenza.
Questa coscienza ci ha permesso di sviluppare tecniche e tecnologie sempre più sofisticate, partendo dai primi sorprendenti utensili e strumenti di caccia fino ad arrivare a macchine complesse, computer, a Internet e all’intelligenza artificiale. Abbiamo creato linguaggi che con precisione sempre maggiore usiamo per descrivere il mondo intorno a noi e quello di dentro, il mondo delle emozioni. Abbiamo utilizzato la nostra musicalità innata per costruire linguaggi sonori strutturati e capaci di comunicare le emozioni; abbiamo creato l’arte.
La nostra evoluzione culturale ha cominciato ad andare, quasi da subito, a una velocità sempre maggiore lasciando indietro quella biologica, e a un certo punto la cultura ha preso a dettare le proprie regole, modificando quei comportamenti e quelle abitudini che erano stati in precedenza determinati esclusivamente dalla biologia.
La vita in gruppi sempre più numerosi ha reso necessario stabilire regole e strutture sempre più complessi per garantire il benessere del maggior numero di individui. Da un valore iniziale puramente biologico, l’omeostasi, il valore della sopravvivenza intrinseco a qualsiasi essere vivente – dai batteri a noi umani – abbiamo creato valori sociali e culturali raffinati e complessi che hanno attenuato ma non eliminato del tutto le loro origini radicate nella biologia.
L’evoluzione biologica e quella culturale, influenzandosi a vicenda in un loop di retroalimentazioni continue, ci hanno portato dove siamo oggi. Quello che ci separa dalle prime forme di vita comparse sulla terra è un percorso affascinante caratterizzato da mutamenti costanti, da momenti di apparente tranquillità in cui la pressione dei cambiamenti futuri inizia a montare fino a non essere più contenibile.
QUESTO È CIÒ CHE STA ACCADENDO OGGI: SIAMO DAVANTI ALLA NASCITA DI UNA NUOVA REALTÀ LA CUI FORMAZIONE VIENE PERÒ DA LONTANO.
Le categorie sociali che, poco più di 150 anni fa, abbiamo creato e cominciato a usare sistematicamente per catalogare, studiare e separare le persone in base a determinate caratteristiche, oggi sono sempre meno funzionali allo scopo originario. L’ideale comparativo di normalità secondo cui esistono corpi, menti e comportamenti sani, giusti, corretti e desiderabili e altri malati, difettosi e indesiderabili non ha più senso. Nella realtà attuale, grazie alla tecnologia, anche quelle persone appartenenti a categorie emarginate, disabilitate e ostracizzate proprio in base a un concetto comparativo di normalità, hanno finalmente voce e possono reclamare i propri diritti, la propria dignità di esseri umani, la propria identità.
La diversità, lungi dall’essere una sottocategoria della normalità, si è rivelata essere la condizione di base della natura. Il concetto di biodiversità esprime in termini assoluti la naturale variabilità della vita sul nostro pianeta; allo stesso modo l’idea di neurodiversità si è fatta strada per indicare le infinite differenze tra un cervello e l’altro. Le categorie discrete nelle quali siamo statǝ infilatǝ dalla nostra naturale necessità di catalogare il mondo per arrivare a comprenderlo, oggi si sciolgono rivelando una fluidità sempre maggiore; i confini tra una categoria e l’altra sfumano in uno spettro multidimensionale di infinite possibilità.
Non è difficile rendersi conto di quanto siamo il risultato di continui cambiamenti, sia biologici che culturali, spesso anche radicali. Se così non fosse, probabilmente oggi la nostra specie non esisterebbe. E, da un punto di vista puramente culturale, forse non ci distingueremmo da altri primati. È davvero un concetto semplice, elementare e cristallino che però si trasforma in qualcosa di oscuro e inaccessibile a una parte della popolazione proprio nei momenti di cambiamento. Perché i cambiamenti, se da un lato sono alla base della nostra esistenza sulla terra, dall’altro significano la perdita di tutto ciò che è conosciuto, abituale, rassicurante.
È facile guardarsi indietro e tracciare una immaginaria linea che colleghi i vari passaggi della nostra evoluzione. Non ci costa alcuna fatica pensare che 2000 anni fa l’aspettativa di vita era di circa 30 anni, oppure che molte società del passato praticavano sacrifici rituali trucidando esseri umani per ottenere il favore di divinità che, in quel momento storico, erano ritenute reali quanto alcuni di noi oggi considerano reale il proprio Dio. È facile pensare che milioni di anni fa assomigliavamo a delle scimmie, emettevamo grugniti e mugugni e che, seguendo quella linea che ci unisce col passato, ci siamo trasformati nelle creature glabre e tecnologicamente avanzate di oggi, capaci di comunicare in tempo reale con qualsiasi parte del pianeta.
Ciò che risulta difficile è invece trovarsi nel bel mezzo di uno di questi periodi di cambiamento grazie ai quali siamo diventatǝ le creature che siamo oggi. Cresciamo credendo che il mondo sarà sempre lo stesso, che le regole e i valori appresi nell’infanzia saranno più o meno gli stessi per i nostri figli e le nostre figlie. Immaginiamo che nulla cambierà e andiamo in crisi se improvvisamente chiude il nostro ristorante preferito o se una pandemia ci costringe a sospendere temporaneamente le nostre consuetudini per il bene della specie.
Il cambiamento è affascinante quando lo osserviamo da lontano, non quando ci siamo dentro. Perché quello che vediamo dall’interno è lo sgretolarsi di un mondo di abitudini, comportamenti, categorie, diritti e privilegi che davamo per scontato sarebbero stati con noi in eterno.
Come sempre è accaduto, in un momento di profondo mutamento sociale e culturale una parte della società si oppone a esso invocando in modo più o meno pittoresco le tradizioni, il passato, il “si è sempre fatto così e allora ci sarà un motivo”. Cambia la società, le persone reclamano il sacrosanto diritto di esprimere liberamente la propria identità, di non dover essere incatenate e ingabbiate in quelle categorie che prima funzionavano esclusivamente perché non c’era modo di opporvisi; le persone oggi fanno sentire la propria voce, nonostante questa cosa possa non piacere a molti.
In questo panorama in cui le idee e le opinioni sono sempre più polarizzate, il linguaggio gioca un ruolo fondamentale. Comunicare utilizzando linguaggi complessi e sempre più precisi è ciò che ci ha permesso di creare macchine, strade, case col riscaldamento, il denaro, fabbriche, aerei, una produzione alimentare che ci consente di vivere comodamente in città senza dover coltivare i nostri ortaggi o allevare e ammazzare gli animali che mangiamo. Lo sviluppo del linguaggio ci ha permesso di arrivare a creare i computer, internet, i cellulari. Ma lo sviluppo è un’azione dinamica, in continuo movimento, è un’azione che passa attraverso il cambiamento.
Attribuire al linguaggio una staticità che non ha mai posseduto per timore del cambiamento, della perdita di consuetudini rassicuranti, è comprensibile e fa anche un po’ tenerezza. Personalmente questa resistenza al cambiamento mi ricorda un po’ l’estinzione della megafauna durante il pleistocene: creature enormi, lente e con tempi di riproduzione troppo lunghi da garantire il rimpiazzo degli esemplari uccisi furono spazzate via dalla terra dai cambiamenti climatici e dall’arrivo di una nuova specie estremamente intelligente e affamata: la nostra. Difficile fermare il cambiamento quando ci si trova dentro.
Il linguaggio è il mezzo che noi umanǝ utilizziamo per descrivere la realtà, e se la realtà muta, con essa inevitabilmente muta la lingua. Una lingua incapace di descrivere il mondo e i suoi cambiamenti non permetterebbe la trasmissione efficace di informazioni, perderebbe progressivamente la propria utilità. E’ impensabile che sopravviva a quei cambiamenti che è incapace di descrivere. Infatti, se ci guardiamo indietro, vediamo che la “lingua più bella del mondo” cent’anni fa non era quella che parliamo oggi, e più andiamo indietro nel tempo, meno comprensibile ci risulterà. Le lingue cambiano insieme alle culture, tutto è in continuo mutamento. Resistere al cambiamento per paura del futuro, per quella comprensibile sensazione di disorientamento che esso porta, restando inchiodati al passato e a un presente che è rimasto immutato solo nella nostra immaginazione, è una strategia che potrebbe rivelarsi fatale.
Osserviamo i mutamenti, anche quelli più spaventosi, provando a comprenderne le origini e le motivazioni. Guardiamo al passato non con nostalgia ma per capire il presente e cercare di non essere investitǝ da un futuro che ormai è già qui. Basta guardarci intorno per vedere la magnitudine dei cambiamenti che spingono come una marea inarrestabile la nostra società verso nuove strutture, nuovi linguaggi, nuove rappresentazioni della realtà.
Basta voltarci indietro per capire che tutto è cambiamento. Da sempre.
[Articolo pubblicato sulla rivista Intersezionale]