Il primo maggio autistico

un disegno che raffigura un uomo e una donna con un mantello rosso, l'uomo che tiene in mano una bandiera rossa, le donna con le braccia alzate

Oggi è il 1 maggio, giornata in cui ricordiamo le battaglie per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori; e allora oggi vorrei ricordare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori autistici e di tutte quelle persone autistiche – la maggioranza, purtroppo – che un lavoro non ce l’hanno.

Premetto che quando si parla di autorappresentanza delle persone autistiche si entra sempre in un terreno difficile. Il fatto è che ci sono molte bambine, bambini e persone adulte nello spettro autistico che non riescono a esprimere i propri pensieri, che non comunicano in modo convenzionale quello che desiderano o di cui hanno bisogno, e per farlo dipendono dalle persone che sono loro più vicine, i caregiver come i familiari, in particolare i genitori.

Sicuramente però, nonostante questo limite alla rappresentatività, da parte delle persone autistiche in grado di esprimersi sia verbalmente che per iscritto o attraverso sistemi come la Comunicazione Aumentativa Alternativa, possiamo ricevere un contributo importante. Fermo restando che ogni persona autistica è diferente dall’altra, come avviene per le persone neurotipiche, esistono nell’autismo elementi comuni che potrebbero essere chiariti grazie al contributo di quelle persone autistiche che in vari modi riescono a esprimersi. E c’è un campo in particolare in cui il racconto delle stesse persone autistiche può fare realmente la differenza: il mondo del lavoro.

Sono molte infatti le autistiche e gli autistici adulti che possono raccontare in che modo vivono il lavoro, quali sono gli ostacoli, le barriere non solo architettoniche e sensoriali ma anche cognitive, sociali e comunicative, che rendono a volte impossibile accedere a un impiego e, nei rari casi in cui ci si riesce, a mantenerlo.

Le statistiche parlano chiaro. Purtroppo mancano dati in Italia, ma dal Regno Unito sappiamo che le persone autistiche adulte in possesso di un lavoro di qualsiasi tipo (inclusi lavori sotto pagati, o con contratti di poche ore) sono il 32%, e quelle con un impiego a tempo pieno e retribuito equamente sono solo il 16%[1]. Confrontate questa percentuale con quella delle persone neurotipiche impiegate, che arriva all’80’%, e traetene le dovute conclusioni.

L’inchiesta inoltre sottolinea che il 77% delle autistiche e degli autistici senza un lavoro desidererebbe lavorare, e che il 40% di loro non ha mai lavorato.

Uno degli ostacoli al conseguimento e al mantenimento di un lavoro da parte delle persone autistiche e, non meno importante, allo sviluppo di una carriera soddisfacente professionalmente e umanamente, è rappresentato proprio dall’ambiente lavorativo, che non sempre è preparato ad accoglierne e valorizzarne quelle caratteristiche che divergono dalla media della popolazione. I problemi iniziano ben prima della fase di selezione e si presentano fin dal primo contatto con le aziende, a partire da siti internet e offerte di lavoro scritti e strutturati spesso in modo inaccessibile alle persone neurodivergenti.

E poi c’è l’ostacolo dei colloqui, gestiti senza considerare che per una persona autistica le modalità di comunicazione, di interazione sociale e elaborazione della realtà possono essere anche molto differenti da quelle utilizzate dalle persone neurotipiche. Insomma, non è possibile valutare persone dalle caratteristiche non standard utilizzando tecniche e metri di giudizio standardizzati sviluppati per selezionare persone che appartengono alla maggioranza neurotipica, che esprime comportamenti a volte estremamente differenti dalla popolazione autistica.

Il mondo del lavoro presenta quindi delle barriere in entrata a volte invalicabili per una persona autistica. Ma, quando anche questa riuscisse ad accedervi, le barriere interne all’azienda agirebbero sulla sua permanenza e sulla possibilità di esprimere e sviluppare le proprie qualità, quelli che in gergo aziendale vengono definiti “talenti”.

La maggior parte degli interventi di inclusione messi in atto oggi non risolve questi problemi per una serie di motivi, primo fra tutti il fatto che tali interventi vengono pensati e messi in atto nei confronti di persone che non esistono nella realtà. È proprio così: la persona autistica ideale a cui l’inclusione delle neurodivergenze si rivolge è uno stereotipo (attenzione, inclusione delle neurodivergenze e non della neurodiversità, che è tutt’altro concetto)[2]. Questa fantomatica persona è infatti un cliché, un modello ideale che nasce dalla narrazione delle difficoltà di un individuo autistico sul lavoro immaginate però da persone neurotipiche.

Ci si basa su informazioni di seconda mano oppure su descrizioni cliniche basate esclusivamente su cliché deficitari, proponendo un discorso incentrato su un modello medico che vede la difficoltà come responsabilità della persona e non come risultato dell’interazione tra l’individuo e un ambiente altamente standardizzato e poco flessibile. Si propongono tavole rotonde a cui, nella stragrande maggioranza dei casi, partecipano in qualità di esperte persone neurotipiche che a loro volta hanno appreso generiche nozioni sull’autismo da persone non autistiche. E si perpetrano gli stessi errori, proponendo soluzioni inutili e a volte dannose che potrebbero essere evitate se solo si desse ascolto a coloro che più di tutti possono spiegare le problematiche sensoriali, relazionali, comunicative a cui va incontro un individuo autistico sul lavoro: le persone autistiche.

Si crede ad esempio che a noi persone autistiche non faccia piacere socializzare, dando così per scontato che lavorare da casa sia la soluzione ideale, ma ci sono molte autistiche e autistici per cui l’ufficio è un luogo di socializzazione, una routine a cui non vorrebbero rinunciare. Si generalizza sulla iper-sensorialità e non si considera che ogni persona autistica ha una modalità sensoriale differente. Non esiste una soluzione valida per tutte: one size doesn’t fit all e questo, a prescindere dall’autismo, bisognerebbe tenerlo in conto per tutte le persone. Oppure veniamo descritti come supereroi, la figura inesistente dell’impiegato socialmente inetto ma efficientissimo in alcune aree specifiche grazie ai suoi “superpoteri autistici”; insomma, si cerca di rendere economicamente vantaggioso per l’azienda ciò che fino al giorno prima la società ha stigmatizzato di noi, le nostre differenze.

Nel mio lavoro e nell’attività di divulgazione che svolgo sono entrato in contatto con centinaia, forse migliaia di persone autistiche adulte di ogni nazionalità, e il problema più ricorrente è sempre lo stesso: non veniamo ascoltati; non ci viene chiesto in che modo potremmo lavorare a parità di condizioni con le persone neurotipiche.

Se questa è l’inclusione, allora mi convinco sempre più di quello che sostengo ormai da tempo, del fatto che questa inclusione è paternalistica, che manca di reciprocità, di rispetto, che evidenzia uno squilibrio di potere tra un gruppo che a priori esclude e poi caritatevolmente include, e un altro gruppo che si trova a subire un’inclusione sulla quale non ha avuto la possibilità di decidere, di spiegare, di agire.

Se proprio vogliamo definirci una società basata sul lavoro, allora questo diritto deve essere garantito a tutte le persone, alle stesse condizioni, alle stesse opportunità. Abbattiamo barriere per creare parità di opportunità fin dalla scuola, perché gli ostacoli per molte persone iniziano lì, e lo svantaggio diviene sempre più evidente e umiliante messo a confronto col privilegio di chi, per puro caso, possiede caratteristiche che rientrano in una media artificiale, l’ideale di normalità. Abbattiamo le barriere d’accesso al mondo del lavoro, rendiamo il processo di selezione accessibile a chi ha caratteristiche che divergono dalla maggioranza. Rendiamo i luoghi di lavoro accessibili sotto tutti i punti di vista, perché le barriere sono architettoniche ma anche sensoriali, cognitive, sociali, culturali.

Smettiamola di cercare un ritorno economico in quello che dovrebbe essere un atto di giustizia sociale: finché l’inclusione delle persone con disabilità e delle persone neurodivergenti sarà subordinato alla produttività, finché il lavoro sarà un luogo di competizione, ci sarà sempre chi competerà in vantaggio rispetto ad altri, e non necessariamente per merito proprio, perché nascere in un determinato contesto sociale o avere corpi, sensi o menti nella media non è merito di nessuno, eppure oggi rappresenta un vantaggio di partenza spesso impossibile da colmare lungo il cammino.

Buon primo maggio a tutte, a tutti e a tuttə!

NOTE

[1] Labour market status of disabled people – Office for National Statistics . (2016). Office for National Statistics. https://www.ons.gov.uk/employmentandlabourmarket/peopleinwork/employmentandemployeetypes/datasets/labourmarketstatusofdisabledpeoplea08/current
[2] https://neuropeculiar.com/2020/03/14/che-cose-la-neurodiversita/

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