Burnout autistico. Spesso sento o leggo utilizzare questa definizione senza una reale comprensione del suo significato, a volte confusa con il meltdown o lo shutdown, e forse è utile fare un po’ di chiarezza.
Trovo particolarmente interessante la confusione tra meltdown, shutdown e burnout perché hanno a che fare con un aspetto spesso sottovalutato, cioè la fisicità della condizione autistica, il modo in cui essere autistici si manifesta nei nostri corpi e che diventa qualcosa di estremamente intimo, personale, unico.
Fino a qualche anno fa il vissuto della persona autistica veniva relegato all’aneddotica, mentre gli aspetti oggetto di studio erano essenzialmente quelli osservabili e misurabili dai ricercatori, generalmente neurotipici. L’autismo veniva, e viene tuttora, essenzialmente definito in base all’osservazione di due macro aree: da una parte la comunicazione e interazione sociale, e dall’altra i comportamenti ripetitivi e gli interessi assorbenti.
Nonostante fossero note già a Kanner negli anni ‘40[1], le peculiarità sensoriali associate all’autismo non sono mai entrate a far parte dei manuali diagnostici fino al 2013 quando, nel DSM-5, insieme ai comportamenti ripetitivi e agli interessi ristretti, tra i criteri diagnostici troviamo “Iper- o iporeattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente”.
Cosa c’entra questo con meltdown, shutdown e burnout? C’entra nella misura in cui gli aspetti vissuti nel corpo (non dimentichiamo che il sistema nervoso è parte del nostro corpo), quelli sperimentati in prima persona dall’individuo autistico e non necessariamente osservabili dall’esterno (o semplicemente non paragonabili a una serie di norme sociali e comportamentali standard), sono divenuti oggetto di studio, soprattutto da quando le persone autistiche hanno cominciato a raccontarsi.
Il caso del burnout è esemplare: se ne è iniziato a parlare essenzialmente nei gruppi di persone autistiche, ne hanno discusso gli attivisti e le attiviste sulle reti sociali e sui blog. Gli articoli accademici su questa condizione sono ancora scarsi, e in quei pochi spesso vengono esplicitamente citati racconti in prima persona di individui autistici. In particolare, in un articolo è stata raggiunta la definizione stessa di burnout autistico proprio attraverso il racconto autobiografico di un gruppo di persone nello spettro, e credo che questo sia un elemento estremamente interessante che fa comprendere quanto sia utile e necessario il contributo di autistici e autistiche anche nella ricerca.
Secondo questo studio[2], il burnout autistico è: “una condizione altamente debilitante caratterizzata da esaurimento, ritiro, problemi nelle funzioni esecutive e funzionamento generalmente ridotto, con una maggiore manifestazione di tratti autistici – e distinta dalla depressione e dal burnout non autistico.”
La sensazione di spossatezza e perdita di abilità sembra essere un elemento comune a tanti racconti. Anche quella “maggiore manifestazione di tratti autistici” ha senso, una volta che si comincia a comprendere da cosa potrebbe dipendere il burnout autistico, anzi, forse è la caratteristica che più di tutte ci avvicina a una spiegazione plausibile dei motivi che potrebbero scatenare il burnout.
Molti, infatti, attribuiscono questo esaurimento al masking, ovvero al fingersi non autistici. Definito anche camouflage o PAN (passing as non-autistic), questo processo di mascheramento viene adottato da moltissime persone autistiche per evitare l’esclusione sociale e lo stigma sperimentati a causa del proprio essere differenti dalla maggioranza, per via di comportamenti peculiari, delle incomprensioni reciproche tra autistici e neurotipici nelle aree del linguaggio non verbale e della comunicazione.
A differenza del burnout non autistico, che è per definizione associato allo stress legato al contesto lavorativo, nell’autismo l’esaurimento delle energie è invece il risultato della fatica costante di dover fingere, e questo avviene tanto sul lavoro che fuori. È, come dicevo all’inizio, qualcosa che nasce e si sperimenta nel corpo, un corpo che elabora gli stimoli sensoriali e i segnali sociali in modo differente rispetto alla media, e che quindi si rapporta al mondo in modo diverso, vive una differente esperienza della realtà.
Provate a immaginare quanta energia sia necessaria per costringersi a essere altro, per far finta ad esempio che le luci al neon piantate per otto ore al giorno sulla vostra testa non vi stiano devastando; provate a pensare a quanto possa essere stancante e frustrante dover fingere una socialità che non è la vostra, immaginate insomma lo sforzo di fare giorno dopo giorno tutto quanto per voi sia assolutamente innaturale.
È spersonalizzante, come esperienza, soprattutto a lungo andare, perché non si tratta semplicemente di recitare una parte ma di diventare realmente un’altra persona, una persona che funziona in modo completamente differente, il cui corpo sente e reagisce al mondo in modo diverso. È estenuante, e prima o poi passa fattura. Non a caso, sempre nell’articolo citato in precedenza, il burnout viene descritto come una condizione spesso riscontrabile prima della diagnosi. Nel mio caso, è stato proprio un burnout estenuante a portarmi a cercare aiuto specialistico, arrivando poi alla diagnosi.
A differenza di un meltdown o di uno shutdown, che potremmo interpretare rispettivamente come un’esplosione verso l’esterno e a una implosione dovute a un sovraccarico sensoriale, emotivo o cognitivo – e che durano in generale relativamente poco, il tempo di lasciar tornare il sistema nervoso a uno stato di maggiore tranquillità – il burnout può durare a lungo. Finché non si riesce a interrompere il circolo vizioso di doversi mascherare per passare da neurotipici e poi bruciarsi per l’impossibilità di sostenerne il prezzo, il burnout può persistere o manifestarsi periodicamente. Ma sappiamo che non sempre abbiamo la possibilità di decidere se e quando smettere di indossare questa maschera, che questo dipende da tanti fattori relativi a ciascuna persona e alla società in cui si trova e non sono assolutamente giudicabili dall’esterno.
Un’ultima osservazione in relazione al burnout autistico riguarda il cosiddetto aumento dei tratti autistici che in molti sperimentiamo. In condizioni di esaurimento si ha la sensazione di diventare “più autistici”, e spesso questo viene notato anche dall’esterno. Ma è facile comprendere il perché: nel momento di esaurimento mancano le energie per continuare a mascherare il proprio autismo, così vengono a galla quelle caratteristiche normalmente soffocate: le stereotipie, la ipersensorialità, le differenti modalità sociali e comunicative.
Mancano le forze per fingere sorrisi, per interpretare ogni sguardo e ogni gesto dell’altro cercando di capire cosa in realtà significhino nel linguaggio neurotipico, o per resistere a una stimolazione sensoriale insopportabile. Non è che aumentino i tratti autistici, è che il burnout riduce la finzione, fa uscire fuori almeno in parte chi siamo in realtà.
Il burnout autistico è la conseguenza dell’esclusione che la nostra società riserva a chiunque non si conformi alla norma, è il disastroso risultato del tentativo di essere accolte, di non essere perseguitate, a volte semplicemente della speranza di non essere notate. Perché se non sentissimo la pressione verso il conformismo fin dalla più tenera infanzia, se essere autistiche e autistici non fosse stigmatizzato e marchiato come un difetto di fabbrica, probabilmente non ci consumeremmo cercando di apparire chi non siamo.
NOTE:
[1] Grapel JN, Cicchetti DV, Volkmar FR. Sensory features as diagnostic criteria for autism: sensory features in autism. Yale J Biol Med. 2015 Mar 4;88(1):69-71. PMID: 25745375; PMCID: PMC4345540.
[2] Higgins, J. M., Arnold, S. R., Weise, J., Pellicano, E., & Trollor, J. N. (2021). Defining autistic burnout through experts by lived experience: Grounded Delphi method investigating #AutisticBurnout. Autism, 136236132110198.