Benedetta Neurodiversità

il simbolo dell'infinito con i colori dell'arcobaleno, che simboleggia la neurodivergenza

Ho letto l’ennesimo articolo che pretende di spiegare il concetto di neurodiversità mostrando chiaramente quanto non sia  minimamente compreso il significato di tale definizione, che viene come al solito confusa con quella di neurodivergenza, e privata della forza politica e identitaria attribuitale fin dal primo momento dalla sociologia Australiana Judy Singer.

E allora, visto che sembra così difficile reperire informazioni corrette sulla neurodiversità, vi metto qui un capitolo della nuova edizione di Eccentrico in cui lo spiego in modo chiaro, semplice e documentato, sperando che possa essere utile.

Il paradigma della neurodiversità

La scienza medica può aiutarci a comprendere il perché di alcune delle caratteristiche che contraddistinguono le persone autistiche, e sicuramente quello medico è un punto di vista fondamentale, ma non è l’unico. È interessante notare come negli ultimi anni anche studiosi di fama mondiale nel campo dell’autismo come Simon Baron-Cohen[1], abbiano cominciato a spostare il discorso sull’autismo fuori da un modello prettamente medico.

Questo perché, se rimaniamo legati a doppio filo a una visione esclusivamente medica dell’autismo, non riusciremo a cogliere tutti quegli aspetti che rendono problematica la vita delle persone autistiche non in quanto difettose, ma nel momento in cui interagiscono con una società neurotipica. In questo senso, lo stesso Baron-Cohen suggerisce di abbandonare la dicitura di “disturbo” poiché “quando esaminiamo la cognizione e la biologia dell’autismo, verosimilmente ciò che vediamo non è la prova di un disturbo ma piuttosto la prova di una differenza”[2]. Secondo lo studioso britannico, invece di parlare di malattia o disturbo potrebbe essere più utile utilizzare il paradigma della disabilità perché “il linguaggio della disabilità è molto diverso dal linguaggio del disturbo. La disabilità richiede il supporto della società, l’accettazione della differenza e della diversità e un “ragionevole adattamento” della società, mentre il disturbo è generalmente considerato come bisognoso di una cura o un trattamento. Questi sono quadri molto diversi.
Il concetto relativamente nuovo di neurodiversità può essere prezioso per risolvere questo problema”.[3]

L’idea di neurodiversità, sviluppata a partire da quello che viene definito il modello sociale della disabilità, ci permette infatti di considerare l’autismo non solo in base alle possibili (perché ancora non chiare) cause biologiche e genetiche, ma di focalizzare l’attenzione sul punto cruciale, sul momento nel quale le caratteristiche dell’autismo possono diventare problematiche, e cioè nel momento dell’interazione con un gruppo che condivide caratteristiche sociali, culturali e comunicative differenti.

Ma cosa s’intende per neurodiversità? C’è molta confusione intorno a questa definizione. Molte persone, comprensibilmente, si lasciano ingannare dai due termini che creano questo sostantivo: “neuro” e “diversità”, e pensano che la neurodiversità sia sinonimo di un qualche disturbo neurologico o di una specifica differenza come l’autismo o l’ADHD.

In realtà quello di neurodiversità è uno di quei concetti utili che ci aiutano ad allargare la nostra visuale sul mondo. Per comprendere bene cosa significhi, dobbiamo partire dal concetto su cui essa si basa, la diversità, che non va interpretata come termine comparativo, non significa cioè diversa o diverso dalla norma, anormale, ma va intesa come sinonimo di variabilità, di varietà.

Da questa idea di variabilità è nata una definizione come quella di biodiversità, che l’articolo 2, § 6 della Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite definisce “variabilità tra gli organismi viventi di ogni origine compresi, tra l’altro, gli ecosistemi terrestri, marini ed acquatici e i complessi ecologici di cui sono parte; questo comprende la diversità in una stessa specie, tra le specie e quella degli ecosistemi”[4]. E in quest’ottica va quindi letta la parola neurodiversità, come omologo neurologico di biodiversità. La neurodiversità umana è quindi la variabilità tra i sistemi nervosi di ogni essere umano, l’insieme delle differenti caratteristiche che costituiscono la neurologia di ciascuna persona sulla terra.

Questa idea rivoluzionaria e liberatoria, dal forte potere politico e identitario, fu coniata nel 1998 dalla sociologa e attivista autistica Judy Singer, e da allora è stata oggetto di fraintendimenti e interpretazioni anche lontane da quello che la sua creatrice voleva intendere[5].

All’interno di questa enorme variabilità che contraddistingue i nostri cervelli, nella neurodiversità che accomuna tutte e tutti, esistono però determinate caratteristiche che sembrano presentarsi con una maggiore frequenza in alcune persone. Per la maggioranza della popolazione (circa l’80%) parliamo allora di sviluppo neurologico tipico, ferme restando le inevitabili e naturali differenze tra un individuo e l’altro, anche in questa generalizzazione. Con Neurotipica, o neurotipico, intendiamo quindi la maggioranza, coloro che in una serie di caratteristiche hanno seguito uno sviluppo neurologico simile. Questo risulta in un modo abbastanza omogeneo di percepire gli stimoli interni ed esterni, di elaborarli e quindi in una certa uniformità (sempre generalizzando) nel modo di relazionarsi a se stessi e all’ambiente.

Il restante 20%, più o meno, rappresenta le cosiddette neurodivergenze o neuroatipicità, ed è composto da quelle persone che, per un motivo o per un altro, hanno seguito uno sviluppo neurologico più o meno differente rispetto alla media: il loro sistema nervoso, in alcune aree e in maniere differenti da individuo a individuo, si è organizzato in modo appunto atipico. In questa ideale categoria si fanno rientrare le persone autistiche, ADHD, dislessiche, disprassiche, tourettiche, discalculiche, disgrafiche ecc.

È un concetto importantissimo, quello di neurodiversità, perché ci allontana da una narrazione che vede alcune caratteristiche neurologiche come necessariamente problematiche o intrinsecamente deficitarie, spostando l’attenzione invece sulle differenze. Solo da qui può partire un discorso paritario e reciproco. Differente infatti non vuol dire inferiore o difettoso ma, appunto, semplicemente differente. Cosa che, tra l’altro, non mette in discussione le difficoltà che alcune di queste differenze possono causare.

Pensando in termini di neurodiversità cominciamo però a mettere al centro della questione la società, che deve assumersi le proprie responsabilità nella creazione e nel mantenimento delle barriere che inevitabilmente crea sul cammino di chi viene percepito come differente. È lo slittamento da una visione che ha sempre cercato esclusivamente di “riparare” la persona autistica, a una che invece prova a rendere consapevole la società intera delle differenti possibilità attraverso le quali può esprimersi l’organizzazione neurologica dell’essere umano.

Parlare di neurodiversità non è un capriccio, e in generale non lo è parlare di diversità, di variabilità, cercare di guardare alle differenze individuali come caratteristiche e non paragonarle a un illusorio Ideale di normalità che impone come contropartita il concetto di anormalità, di indesiderabilità, di difetto. Non è un capriccio, pensare in termini di neurodiversità perché permette di andare oltre l’idea di deficit, permette di guardare alle potenzialità di ciascuna persona qualsiasi esse siano, consente di avvicinarsi in modo costruttivo anche alle caratteristiche più problematiche che alcune persone posseggono, cercando soluzioni che partano dal punto di vista e dalle necessità di ciascun individuo, e non dalle aspettative che nutriamo verso di loro.

Pensare in termini di differenze, anche da un punto di vista neurologico, ci permette di assicurare pari dignità ai diversi funzionamenti, alle varie espressioni della diversità umana, e questo senza necessariamente dover minimizzare le difficoltà ma anzi inquadrandole nel giusto contesto, non stigmatizzandole ma comprendendole.

(Da: Eccentrico, l’autismo in un saggio autobiografico, Fabrizio Acanfora, ed. effequ)

NOTE:
[1] Simon Baron-Cohen è professore nei Dipartimenti di Psicologia e Psichiatria dell’Università di Cambridge e Fellow al Trinity College di Cambridge. È Direttore dell’Autism Research Center di Cambridge.
[2] Baron-Cohen, S. (2017). Editorial Perspective: Neurodiversity – a revolutionary concept for autism and psychiatry. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 58(6), 744–747. doi:10.1111/jcpp.12703
[3] ibid.
[4] Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite (CBD, art. 2, § 6)
[5] La definizione della stessa Judy Singer è consultabile sul suo blog: Singer, J. What is neurodivesity? in «Neurodiversity 2.0», www.neurodiversity2.blogspot.com/p/what.html
Per chi preferisce la lettura in italiano, consiglio la traduzione di questo articolo disponibile qui: https://neuropeculiar.com/2020/03/14/che-cose-la-neurodiversita/

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