Come ti allontano il candidato perfetto

Vignetta che ritrae un meeting aziendale con un cartello con su scritto "team work"

Diversity & Inclusion, Employer Branding e Recruitment Markleting rischiano di rimanere definizioni prive di significato e semplici operazioni di facciata se non vengono pensate e strutturate in modo intersezionale tra loro e, soprattutto, se non poggiano su valori reali e condivisi a tutti i livelli.

Un’azienda che vanta politiche di inclusione della diversità, non cercherà di ottenere da tale pratica solo un miglioramento delle condizioni lavorative dei dipendenti, ma ovviamente – d’accordo col famoso ma non necessariamente realistico business case della D&I – avrà come scopo anche la ricerca di un vantaggio in termini economici: riduzione del turnover, aumento della produttività, maggiore engagement, attrazione e ritenzione di talenti, in poche parole, maggiore competitività.

Così, poiché il buongiorno si vede dal mattino e il primo contatto con l’azienda è fondamentale per metterne alla prova l’inclusività, sono andato a spulciare un certo numero di offerte di lavoro di imprese che si dichiarano inclusive nei confronti della diversità. E, per non smentire lo stereotipo dell’autistico che fa ricerche ossessive, di offerte di lavoro ne ho lette tante, per le posizioni più disparate, da aziende di ogni tipo e in ogni parte del mondo.

Nella quasi totalità degli annunci letti sono presenti frasi che assicurano come la diversità e l’inclusione siano prioritarie per l’impresa tanto da essere incorporate nei suoi valori fondamentali. In moltissimi riconoscono che la diversità in ogni sua espressione è una ricchezza, e che l’inclusione permette alle differenze di esprimersi migliorando la vita dei colleghi, dei clienti e diventando un vantaggio per l’azienda.

Bene, come sostenevo prima, almeno il business case è stato studiato un po’ dappertutto. Ma poi, nel passaggio alla pratica, le cose non sono andate così lisce.

Se io annuncio di voler sostenere la diversità ma poi scrivo un’offerta incomprensibile, un muro di testo lunghissimo privo di riferimenti visivi, con pochi spazi, con una punteggiatura atroce e anzi carico di inutili dettagli, metterò in fuga candidati con Disturbi Specifici dell’Apprendimento o ADHD, ad esempio.

Se mi dico inclusivo e poi insisto nel richiedere tra i requisiti fondamentali una serie di abilità sociali specifiche, ma che sappiamo non essere necessarie per lo svolgimento di quel lavoro, escluderò tutte quelle persone che posseggono modalità di interazione sociale differenti dallo standard considerato “normale”, e non mi riferisco solo alle persone neurodivergenti, ma anche alle introverse o alle persone estremamente timide, per esempio. Mettendo certe caratteristiche come requisiti d’entrata, non si dà la possibilità a determinate categorie di persone di esprimere abilità estremamente più importanti da un punto di vista professionale.

Parliamo ad esempio dell’essere multitasking. Davvero c’è ancora chi crede che una caratteristica come questa, smentita dalla scienza e dalla pratica, esista realmente e, soprattutto, che inserirla tra i requisiti essenziali di un’offerta possa giovare all’azienda? Io, per esempio, non sono multitasking (come il resto dell’umanità), e non ho nemmeno una capacità particolarmente spiccata di passare da un compito all’altro in tempi rapidissimi. Eppure ho sviluppato un sistema di lavoro per priorità che mi permette di gestire un master universitario, partecipare alla gestione di un altro, scrivere un articolo al giorno, libri e saggi, partecipare a conferenze e webinar e dare lezione ai miei studenti di master. Eppure, lo ripeto senza vergogna, io sono l’opposto di quello che verrebbe considerato multitasking.

Stessa storia per la definizione di team player. Anche in questo caso, aziende che si descrivono come inclusive sbarrano la strada a determinati candidati fin dal primo contatto, inserendo come requisito d’entrata quest’altra leggenda urbana: il team player. Io mi reputo una persona onesta, e forse anche a causa di un’interpretazione a volte letterale del linguaggio – caratteristica di molte persone neurodivergenti – davanti a una richiesta del genere lascerei perdere.

Cos’è un team player, che caratteristiche ha? Ma soprattutto, sappiamo benissimo che in ogni squadra esistono persone con differenti caratteri e attitudini. C’è chi rema costantemente contro, chi non fa nulla e si prende i meriti, chi lavora sodo e viene sfruttato dagli altri; c’è la persona remissiva che non dice mai di no e quella arrivista che sorride sempre e alla prima occasione pugnala tutti alle spalle e fugge col risultato. Eppure, team composti da persone tanto diverse funzionano, sono la norma, lo sappiamo tutti perché ci siamo passati almeno una volta nella vita.

Io non corrispondo alla definizione di team player. Non amo le riunioni perché non riesco a seguire troppe voci contemporaneamente, non mi trovo a mio agio in luoghi rumorosi e troppo illuminati, a contatto con la gente. Salto spesso pranzi, cene e birre coi colleghi, e ho un modo estremamente personale di risolvere i problemi e affrontare i miei compiti. Eppure nel mio lavoro all’università, un lavoro definibile “di squadra”, sono riuscito a rimettere in sesto un corso che rischiava di essere soppresso a causa della disorganizzazione precedente. È stato importante negoziare determinate condizioni con la direzione, spiegare le mie caratteristiche ed essere disposto a scendere a compromessi, a fare anch’io dei passi verso modalità a me poco affini; è stata necessaria un’operazione di “reciprocità”. Ma se mi fosse stata presentata un’offerta in cui veniva richiesto un team player, sicuramente avrei lasciato perdere già solo a leggere quella definizione, e il corso sarebbe stato soppresso qualche anno fa.

Altra spina nel fianco sono i moduli per presentare la propria candidatura online. Ne ho esaminati tanti, e in oltre la metà delle occasioni avrei mandato tutto a quel paese prima di giungere alla fine del processo. Procedure farraginose, richiesta degli stessi dati più volte, difficoltà nel caricamento di documenti o pagine inaccessibili perché i caratteri sono troppo piccoli o dalle forme poco leggibili per alcune persone, o perché il colore del fondo e quello dei caratteri rendono difficile la lettura a chi ha particolare sensibilità visiva; a volte richieste incomprensibili e in generale uno spreco di tempo davvero avvilente.

Certo, se un’azienda vuole mettere alla prova i candidati fin dall’invio della richiesta è un ottimo sistema, ma lo è anche per perdere talenti.

Non avendo realmente sottoposto alcuna candidatura non so se i passaggi successivi sarebbero stati altrettanto poco inclusivi ma, dai tanti racconti di persone con cui ho parlato, posso immaginare che le cose peggiorino quando si parla di colloqui, situazioni in cui l’aderenza a determinati standard e stereotipi diventa ancora maggiore, tagliando fuori candidati che nelle condizioni ideali potrebbero rivelare abilità e talenti preziosi.

L’employer branding è una strategia fondamentale, ma non può basarsi su promesse non mantenute: dev’essere l’espressione di valori reali che ruotino intorno alla vera convivenza di tutte le differenze. Allo stesso modo, il Recruitment Marketing diventa uno strumento essenziale per attirare l’attenzione di possibili talenti, ma anch’esso può trasformarsi in un boomerang se non poggia su basi solide, se non è il risultato di un processo che esprime valori e pratiche realmente inclusivi in ogni aspetto e a ogni livello dell’azienda.

L’inclusione della diversità comincia dal modo in cui l’azienda si presenta al mondo sia attraverso messaggi chiari che attraverso fatti tangibili. Una presentazione incoerente è un pessimo biglietto da visita, mentre un’attenzione a determinati dettagli fa trasparire il reale interesse dell’azienda nei confronti delle persone a cui si rivolge. Persone, prima che candidati e candidate, impiegati e impiegate. Persone che esprimono talenti e caratteristiche diverse solo se messe in condizione di farlo fin dal primo, fondamentale contatto con l’azienda.


 

Copertina del libro: in altre parole, dizionario minimo di diversità, di Fabrizio AcanforaSe ti interessa il liguaggio della diversità, ti consiglio il mio nuovo libro: In Altre Parole, dizionario minimo di diversità

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