La diversità in azienda è un vantaggio, recita il business case; un team composto da persone con caratteristiche differenti rende meglio, è competitivo anche grazie all’espressione del pensiero laterale, out of the box, ripetono in coro gli esperti sventolando studi e sondaggi.
Poi arriva al lavoro una persona neurodivergente, quindi con un’organizzazione del sistema nervoso atipica rispetto alla maggioranza, come nel caso dell’autismo. Questa persona percepisce ed elabora il mondo in modo differente dalla media, e di conseguenza anche la sua interazione con la realtà sarà più o meno diversa proprio per come alcune aree del suo cervello sono strutturate e collegate tra loro.
La persona neurodivergente ha tendenzialmente una modalità di pensiero differente, “out of the box”, è una sua dotazione di serie. Non necessariamente è geniale, ma è probabile che affronti i problemi in modo diverso, che veda le situazioni da angolazioni non comuni e che proponga soluzioni innovative. Probabilmente una persona autistica, o neurodivergente in generale (ADHD, dislessica, discalculia ad esempio), apporterà al team quel pensiero laterale che tanto veniva osannato fino al suo arrivo in azienda.
Eppure una volta entrata, questa persona scoprirà che le cose si fanno solo in un determinato modo, che vanno seguite le procedure e che se si è sempre fatto così ci sarà un motivo; le verrà fatta notare in modi più o meno sottili la sua diversità, il suo stile cognitivo e comunicativo verrà messo in discussione e le sue richieste considerate assurde, e dopo un po’ comincerà a pensare che così com’è non va bene, che è meglio fare come le viene detto, seguire le procedure, non proporre niente di nuovo. Dopo un po’, crederà che il suo personale stile cognitivo, sensoriale e comunicativo è un problema, non una risorsa.
Nel saggio sull’inserimento lavorativo dell’autismo intitolato “la diversità è negli occhi di chi guarda” (scaricabile gratuitamente QUI) ho pubblicato i dati di un sondaggio che ho realizzato nella comunità di persone autistiche. Una situazione nella quale si è riscontrato il 41,2% delle autistiche e degli autistici che hanno partecipato dice: “Idee innovative che ho proposto non sono state prese in considerazione perché poco ortodosse”. E c’è anche chi ha raccontato che “Il far notare dettagli/problemi viene visto come remare contro e quindi si viene malvisti e esclusi”.
Chiunque abbia avuto la possibilità di parlare o confrontarsi con persone neurodivergenti (e io lo faccio quotidianamente) sa che queste situazioni sono all’ordine del giorno. Noi autistici e autistiche veniamo “pubblicizzate” come persone in grado di trovare i dettagli nascosti, di pensare “out of the box”, però quando queste nostre caratteristiche emergono sul lavoro vengono spesso represse, stigmatizzate, considerate poco ortodosse. Oppure quando facciamo notare errori, rischi o dettagli fino a quel momento passati inosservati, veniamo giudicati pesanti, etichettati come pessimisti.
Verrebbe da domandarsi se la storia del team diverso e del pensiero laterale non sia solo un mito. Tra l’altro io parlo come persona autistica, ma il discorso vale per tutte le altre espressioni della diversità, quella naturale variabilità che ci caratterizza come specie. Perché differenti orientamenti sessuali o generi o fedi religiose, corpi o neurologie atipici oppure origini diverse, creano persone che affronteranno la propria vita in modo differente proprio in base a quelle caratteristiche che le rendono “diverse” da un ideale di normalità ancora troppo presente nella nostra società.
C’è un gap che agli occhi di chi viene etichettata come persona “diversa” appare incolmabile. Esiste uno scostamento tra le buone intenzioni e i risultati – anche in termini di produttività e competitività – che certe pratiche promettono e la loro applicazione nel mondo reale. Ci si dimentica che il mondo reale entra in azienda ogni mattina, ed è costituito da persone, dalla quotidianità degli individui, dalle loro idee, dalle loro paure, dalle loro aspirazioni; è la cultura nella quale sono cresciute. E se non si comincia a lavorare proprio su questo aspetto, sulla cultura che guida ogni nostro pensiero, questo gap sarà sempre lì a impedire che la naturale diversità umana sia davvero un valore, un reale vantaggio tanto per le dipendenti e i dipendenti quanto per l’azienda