Includere, integrare o convivere?

Negli ultimi giorni, tra conferenze e discussioni in rete, ho notato un uso particolarmente disinvolto di termini come inclusione e integrazione, e allora credo valga la pena spendere qualche parola per stimolare una riflessione critica nei confronti di questi processi dei quali ormai si parla tantissimo in ogni ambito, a volte senza domandarsi quale sia il loro reale significato.

INTEGRAZIONE
Secondo il vocabolario Treccani, integrare significa “rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”. L’integrazione presuppone quindi che una persona (o un gruppo) debba modificare il proprio essere per sopperire a determinate mancanze, alle presunte carenze che la rendono non conforme all’ideale di normalità seguito dal gruppo culturalmente dominante. In particolare, sempre il vocabolario Treccani, definisce l’integrazione come un “Processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l’ordine normativo”. Integrare significa quindi presupporre una superiorità morale, spirituale, fisica, neurologica, rispetto all’elemento da accogliere.

INCLUSIONE
Il vocabolario Treccani definisce l’inclusione come “L’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto”. L’inclusione presuppone quindi che l’elemento da includere venga accolto per ciò che è, e questo rappresenta sicuramente un passo avanti rispetto all’idea di integrazione, ma all’atto pratico sussiste un problema di equilibri di potere che mette in luce l’essenza paternalistica di questo processo.

Il problema è che l’inclusione non presuppone una reale uguaglianza delle parti, ma segue piuttosto il concetto matematico secondo cui la relazione di inclusione tra due insiemi è la “relazione in base alla quale uno dei due insiemi contiene l’altro come proprio sottoinsieme”. Esiste uno squilibrio enorme di potere tra chi include che può porre, e generalmente pone, delle condizioni per l’ingresso nel gruppo di maggioranza, e chi viene incluso che in qualche modo riceve il permesso di far parte del gruppo in cui è accolto. In questo senso, che è poi ciò che avviene nella pratica quotidiana tanto a scuola come sul lavoro e in altre aree della nostra vita sociale, l’inclusione rischia di essere un processo discriminatorio in quanto prevede che il gruppo culturalmente dominante abbia un potere maggiore rispetto alle minoranze, e questa differenza di potere si traduce in uno squilibrio della dignità e del valore anche morale attribuiti a ciascun gruppo.

A titolo assolutamente personale e senza alcun intento prescrittivo, al termine “Inclusione” preferisco l’idea di “convivenza” delle differenze, in quanto non suggerisce una superiorità di un gruppo sull’altro, non presuppone un’esclusione a cui porre successivamente rimedio con atti paternalistici, e mette tutte le parti sullo stesso piano, rendendole ugualmente degne di esprimersi e attivamente responsabili della comprensione e della gestione delle libertà proprie e altrui e dei loro limiti.

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