Ieri ho scritto di quanto sia importante l’identità culturale, il potersi riferire a un gruppo socialmente e culturalmente definito nella formazione di una coscienza individuale che non sia il frutto di una narrazione di sé creata dalla maggioranza. In pratica, se io non ho una cultura e un gruppo ai quali fare riferimento anche per riceverne modelli e risposte, l’unico modo per capire chi sono sarà attraverso il racconto di me, e delle persone come me, che fa circolare la maggioranza.
Il problema è che se mancano riferimenti socioculturali di chi è come me, crescerò pensando di essere realmente la persona che la società descrive non attraverso delle semplici caratteristiche, ma tramite dei difetti, dei deficit; vivrò costantemente nel confronto impietoso con un modello di persona a tratti incomprensibile e diversa da quello che naturalmente sento di essere, senza poter contare col confortante e costruttivo esempio di chi è invece simile a me anche neurologicamente.
Sono tanti i luoghi in cui la mancanza di una minoranza culturale crea difficoltà alle persone neurodivergenti, e uno di quelli che hanno maggiore peso nella vita delle persone adulte è il lavoro. La persistenza di un modello deficitario e patologico dell’autismo anche nell’ambiente aziendale, continua a rendere impossibile alle persone autistiche di autorappresentarsi, di essere esse stesse parte del processo decisionale e progettuale della propria inclusione lavorativa.
Come spiegavo nell’articolo di ieri, se siamo viste come persone difettose, anormali, non capaci di essere come le altre; se veniamo descritte esclusivamente attraverso il confronto con una maggioranza che si auto definisce “sana”, ne usciremo sempre disabilitate e incapacitate a decidere per noi.
A oggi, che io sappia, la totalità dei programmi di inclusione lavorativa delle persone neurodivergenti non comprende le dirette interessate nella pianificazione del processo inclusivo, manifestando ancora una volta quanto tale ideale, l’inclusione, rappresenti un gesto paternalistico, una benevola concessione a coloro che vengono pur sempre percepite come persone inferiori, incapaci di gestire la propria interazione con la parte neurotipica del mondo, anche di quello lavorativo.
Finché questo sarà il modello inclusivo, un modello che considera la persona autistica (o “diversa” in generale) esclusivamente come passiva fruitrice di determinate politiche e processi al cui sviluppo non ha minimamente contribuito, i risultati saranno modesti e insoddisfacenti, e non solo per l’autistica e l’autistico che dopo poco tempo si ritroveranno a vivere problemi già sperimentati da precedenti interazioni fallimentari con una società incapace di accettare la loro diversità, ma saranno risultati fallimentari anche per le aziende, con costi di turnover notevoli e il coinvolgimento (o engagement, come amano dire) di una parte del personale praticamente nullo.
Ovviamente risulta chiaro che il discorso vale per qualsiasi minoranza o espressione della diversità, perché ogni individuo è il risultato dell’intersezione di molteplici differenze. Nel caso specifico delle neurodivergenze però ci troviamo davanti a un doppio problema, perché la categoria è ancora intrappolata in una visione medico-riparatrice, patologizzante e deficitaria che polverizza l’idea di gruppo socioculturale autonomo e rende estremamente difficile e faticoso qualsiasi tentativo di creare un’identità indipendente, non legata al confronto con la normalità, all’idea di difetto e incapacità.
Di quanto l’inclusione lavorativa delle neurodivergenze (e della diversità in generale) sia un processo da migliorare e forse da superare attraverso il riconoscimento della minoranza in questione nella gestione della propria interazione con l’azienda, ho scritto in modo dettagliato in un saggio intitolato La diversità è negli occhi di chi guarda, scaricabile gratuitamente qui.
Se ti interessa il liguaggio della diversità, ti consiglio il mio nuovo libro: In Altre Parole, dizionario minimo di diversità