Il vortice che risucchia il mondo

Tu che ne sai di cos’è l’autismo vero? Sei fortunato, tu, che puoi parlare e hai una vita normale, l’autismo è un’altra cosa. Non si vede, dai, adesso è una moda, tutti autistici siete.

 

Poi succede. Di nuovo, stavolta però all’improvviso, in un attimo. La confusione di fuori viene risucchiata in un vortice come l’acqua nello scarico del lavandino. Ogni cosa comincia a perdere di consistenza e stabilità, la testa gira.

Una settimana, avevo bisogno solo di una settimana di tranquillità per lavorare a un progetto. Avevo avvisato sul lavoro e mi avevano detto certo, tranquillo, ti chiamiamo solo se è proprio urgente. E invece no, non è stato possibile, perché il lockdown ha reso tutti isterici e adesso ciascuno pensa solo a se stesso. Altro che solidarietà e altruismo, da questa pandemia ne usciremo più individualisti di quando ci siamo entrati, alla faccia delle iniziative solidali, dei messaggini pieni di cuoricini e dei concerti sui balconi.

Avevo chiesto una sola settimana di tranquillità per riuscire a concentrarmi su una cosa a cui tenevo e che dovevo finire da tempo, perché io non sono capace di fare multitasking come gli altri. Io ho bisogno di poter lavorare bene su una cosa per volta, di concentrarmici e dedicarle il tempo necessario, altrimenti vado nel pallone.

E invece no, sembra che i problemi urgenti abbiano deciso di concentrarsi tutti in quei pochi giorni nei quali speravo di stare tranquillo. L’università è in delirio, una struttura lenta e resistente al cambiamento, un dinosauro incapace di gestire situazioni che richiedono flessibilità, e allora una valanga di email, telefonate, riunioni e litigi. E la frustrazione di non poter gestire il mio tempo, di non poter disporre di qualche giorno senza dover litigare con qualcuno, una frustrazione che a fine giornata si materializza come una palla da tennis piazzata alla base della gola.

Sta lì, quella palla, non va né su e né giù. E comincio a sentirla ogni sera quando mi accorgo che la giornata è quasi finita e, ancora una volta, non sono riuscito a fare nemmeno un decimo di quello che avevo programmato.

E così, visto che da qualche parte sapevo di dover ridurre il carico, ho tagliato fuori articoli sul blog e reti sociali per una settimana. Avrò più tempo, mi sono detto, ridurrò le interazioni con gli altri, mi farà bene. E sembrava in qualche modo aver funzionato, fino a ieri. Perché poi, dopo aver finalmente consegnato il progetto a cui tenevo tanto, sono uscito a fare una passeggiata per rilassarmi un po’.

Ma una volta a casa qualcuno ha tolto il tappo al lavandino e il mondo è sparito dentro allo scarico come un vortice nero. Mentre avvertivo il pavimento farsi di gomma e lo spazio assumere una forma elastica, pensavo: «Devo ricordare cosa sta accadendo, voglio raccontarlo». E ho ricordato: una sensazione tra il grottesco e l’insostenibile.

Come sempre, la prima cosa ad abbandonarmi è l’equilibrio: comincio a sbandare, urto contro le pareti, devo appoggiarmi al tavolo e alla sedia per non finire a terra. Entro in cucina e accendo la cappa prima di lasciarmi cadere sulla sedia, ho bisogno di quel rumore, non potrei sopportare nemmeno un sospiro proveniente dal piano di sopra, nemmeno una nota dello stereo dei vicini di sotto. La cappa mi isola, la cappa mi fa bene.

Poi le parole. Vorrei spiegare, avvertire che sto male, che è partita la botta e pure di quelle pesanti, meglio che non parlarmi perché non riesco a sopportare nulla; perfino uno sguardo addosso brucerebbe come l’acido sulla pelle. Provo a parlare ma escono suoni inarticolati. Riprovo, forse basta dire: «Sto male», ma nemmeno quello mi riesce.

In compenso inizio a ridere; comincio a ridere come un imbecille, e non è che sia felice, anzi, ma rido. È una risata strana, ho la sensazione che serva semplicemente a emettere suoni, a far diminuire la pressione; mi calma sentire quel suono che fa vibrare il petto e la gola, sì, mi calma. Rido, e inizio a canticchiare il ritornello di una canzone: «La cambio io la vita che, non ce la fa a cambiare me». Porca miseria, Patty Pravo. E nemmeno mi è mai piaciuta.

Rido, stavolta per davvero, perché non riesco a parlare, ma a cantare sì. E le parole sembrano essere azzeccate, esprimono proprio il pensiero che mi passava per la testa un attimo prima, il desiderio di cambiare vita, di andare in un posto più tranquillo, di non dover più fare quel lavoro, sempre a litigare con gli altri per tenere insieme l’organizzazione del corso col nastro adesivo. Vorrei cambiare vita, pensavo mentre la cappa mi rassicurava col suo ronzio basso e ipnotico.

Continuo a ripetere sempre lo stesso ritornello e rifletto su quanto a volte l’ecolalia possa essere funzionale, anche se spesso gli altri pensano il contrario. Strano era strano, perché io ancora non riuscivo a parlare, ma quel ritornello, quelle parole insieme alla musica esprimevano ciò che non riuscivo a comunicare in quel momento di chiusura quasi totale.

I sensi al massimo. La luce della lampadina a basso consumo che normalmente non mi disturba, in quel momento mi arrivava come una lama negli occhi. Dolore fisico. Una sensazione simile a quando hai l’influenza e fanno male perfino i bulbi oculari. Via anche la luce. La cappa continuava a fare il suo lavoro, adesso nemmeno la canzone riusciva a farsi strada, anche quella si perdeva prima di arrivare alla bocca insieme a tutte le altre parole che avrei voluto dire.

A un certo punto mi sono domandato cosa si vedesse da fuori in quel momento. Un senso di enorme sconforto mi ha assalito all’improvviso. Ho pensato che tutto questo è accaduto perché ho cercato di fare una vita normale per una settimana, di dividermi tra più cose, di sostenere un’interazione prolungata coi colleghi e gli studenti. Tutto questo è accaduto perché nessuno ha ritenuto importante rispettare i miei tempi. Eppure si trattava solo di pochi giorni.

Viene da piangere perché immagino che a vedermi così ridotto nessuno avrebbe avuto il coraggio di dire che non si vede, che l’autismo è un’altra cosa. Nessuno. Non se lo sarebbero sognato di dirmi che è una moda, come hanno fatto in tanti, o che noi “Asperger”, come insistono a chiamarci per differenziarci dagli autistici di serie A, siamo fortunati. La solita guerra tra poveri.

Ieri è arrivato all’improvviso, il maledetto shutdown. Credevo di averlo seminato, di essere riuscito a gestire tutto e fino a pochi minuti prima ero perfino felice di essere riuscito a terminare il progetto. Certo, un po’ di rabbia perché al lavoro, nonostante siano a conoscenza delle mie necessità, da quando siamo in quarantena se ne sbattono tranquillamente. Ci sono problemi, vanno risolti. E sticazzi dell’autismo. Inclusione a targhe alterne: oggi sì, domani no, dopodomani boh.

Ieri sera sono crollato di nuovo ed è stato brutto, come sempre, ma necessario. Perché come la fenice, ogni volta rinasco dalle mie ceneri, e se non brucio completamente non posso ritornare a vivere. Ma quando brucio scompaio, non servo a nulla, vengo risucchiato dentro il mio mondo e il resto non esiste più. Quando brucio non posso lavorare, parlare, uscire. Quando brucio perché sono DOVUTO essere normale per troppo tempo, non sono più un disabile invisibile.

Eccola qua, la mia disabilità. Ieri sera, come tutte le altre volte in cui l’intensità del mondo di fuori si fa insostenibile, la disabilità si è manifestata in tutto il suo splendore. Il telefono ha squillato, era l’università, e sono arrivate delle email urgenti ma tanto io non c’ero, in quel momento, non potevo rispondere. Ieri sera, mentre il mondo era sparito, risucchiato da quel vortice, io ero autistico a tutti gli effetti, per la gioia di tutte quelle persone che continuano a dire che non si vede, che è una moda, che l’autismo è un’altra cosa.

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