L’empatia autistica: lost in translation

Qui lo stereotipo è di quelli che fanno male e anche tanto: “voi autistici non avete empatia, e se ce l’avete funziona male”. Lo dicono fonti autorevoli, studiosi che costruiscono la nostra descrizione in laboratorio osservandoci come topolini, misurando i nostri comportamenti e confrontandoli con quelli che la società ritiene più appropriati.

E così iniziamo a non capirci più nulla. Ma come, io non ho empatia? Ma allora perché quando era triste io ho pianto con lei? Perché quando mamma stava male mi prendeva quella sensazione di dolore così straziante? O quando ti ho visto radiosa il giorno della tua laurea ero felice anch’io come se fosse stata la mia festa?

Certo, è vero che anche quando sono triste perché stai male spesso non so cosa dirti, mentre gli altri sembrano essere così sicuri di conoscere le parole giuste o i gesti, quegli abbracci che gli partono d’istinto o i sorrisi per tirarti su. Oppure a volte, in un momento solenne in cui tutti si muovono seguendo un copione a me oscuro, come a un funerale, salto fuori con una battuta e gli altri scuotono la testa e piovono occhiatacce indignate. Certo, quella volta eri disperato perché lei ti aveva lasciato, e mentre tutti inspiegabilmente ti raccontavano la favola che è stata colpa sua, non era la ragazza per te, io riuscii solo a dirti la verità credendo di aiutarti a capire. Ma, anche quello, pare che non vada bene.

Non capisci” dicono, “come fai a essere così freddo, inopportuno? Certo, voi autistici non avete empatia, non avete ‘teoria della mente’!” È una cosa che confonde parecchio questa, e spesso brucia perché anche se non ti ho abbracciato in quel momento io sentivo tutto il tuo dolore, e quella volta che ho cominciato a parlarti della ricerca che stavo svolgendo era per distrarti, non per minimizzare ciò che tu provavi.

Eppure è molto strano, perché anche io ho notato la stessa cosa da parte degli ‘altri’, quelli senza etichetta, quelli che funzionano bene, i ‘normali’. Anche loro quando sto male e chiedo per favore un attimo di silenzio sembrano non capire, fanno spallucce e dicono che sono sempre esagerato, che sarà mai. Oppure in quei giorni neri e densi in cui ogni cosa sembra appiccicarmisi addosso e anche respirare costa una fatica tremenda, anche in quei giorni nessuno sembra capire cos’abbia, anzi, mi evitano. E invece anche a me piacerebbe che qualcuno mi mostrasse ‘empatia’, quella che – dicono gli studiosi – io non ho. Anch’io vorrei che capiste che se mi rinchiudo in camera a suonare al buio oppure mi isolo dal mondo non è perché non voglio stare con voi, ma perché non sto bene. Anche a me piacerebbe che qualcuno comprendesse i miei sentimenti senza doverli ogni volta spiegare nei dettagli.

Ma quindi forse il problema non ce l’abbiamo solo noi, i ‘diversi’, gli autistici freddi e distaccati; forse è una questione di linguaggio, di modalità. Di differenze. È come mettere un cinese e un olandese a un tavolo a parlare ognuno nella sua lingua, senza che l’uno sappia una parola della lingua altrui: ciascuno penserà che l’altro non capisce. Forse non esiste quel deficit (quanto piace a molti questa parola triste) che ci attribuite senza nemmeno provare a capire come funzioniamo, senza mai pensare che probabilmente non esiste una modalità corretta di esprimere quello che abbiamo dentro ma tanti modi differenti. E nessuno è migliore dell’altro. Magari è tutto un errore di traduzione da un linguaggio all’altro.

Questa idea l’ha ben spiegata Damian Milton, un autistico ‘esperto’ di autismo, psicologo, sociologo, docente universitario e ricercatore. Milton ha proposto la teoria della ‘doppia empatia’[1] che conferma tutto quello che ho appena scritto, che l’empatia non funziona a senso unico ma ha bisogno di più attori, e che se ciascuno parla solo la propria lingua allora non ci si capirà. Ma se uno dei due appartiene a quella cultura dominante che non contempla la possibilità di alcuna differenza, che non riesce ad accettare che altre culture, altre modalità di socializzazione, di comunicazione, di sensorialità, possano avere uguale valore e dignità, allora riterrà il diverso un essere difettoso. Carente di empatia.

La nostra empatia non vale meno di quella di un non autistico, è diversa. Sostenere il contrario equivale a umiliare quello che noi autistici proviamo, la solitudine di non essere compresi, la frustrazione di venire costantemente etichettati come errori di fabbrica. Non siamo difettosi, in molte cose però sì, siamo diversi. E tra l’altro per riuscire a sopravvivere in un mondo che ci attribuisce un valore inferiore a quello della maggioranza ci sforziamo, noi, di apprenderne le regole e il funzionamento; spesso ci consumiamo fino a esplodere per provare a essere come gli altri. Ma che senso ha tutto questo se poi dall’altra parte non avviene la stessa cosa? Perché dovremmo essere sempre e solo noi a cercare di capire come funziona la cosiddetta ‘cultura dominante’? Solo perché è dominante, perché sminuisce qualsiasi alternativa senza nemmeno provare a capirla?

Mia madre spesso mi chiamava cuor di pietra perché quando stava male io correvo in camera a suonare. Io la capisco e capisco quei genitori che provano sentimenti simili, loro vorrebbero che i figli li abbracciassero spontaneamente, che interagissero secondo la modalità standard. Eppure quando io correvo in camera era perché il dolore che in quel momento sentivo emanare da mia madre era troppo forte, mi sentivo sopraffatto. Suonare per lei era il mio modo di starle vicino.

Era duro, sapere che lei mi vedeva come un figlio distaccato, fa male quella consapevolezza di non riuscire a essere come gli altri vorrebbero che fossi, soprattutto perché io non ho mai messo in dubbio l’amore e le buone intenzioni di nessuno, nemmeno quando sono i miei, di sentimenti, a non essere compresi.

Si parla tanto di costruire ponti, forse se ne parla a sproposito. Sembrano tutti ingegneri lì sulle reti sociali a progettare ponti, eppure questi stereotipi sulle differenze continuano a fare danni. Basterebbe che su quel ponte ci salissimo entrambi, che ci incontrassimo a metà strada e forse impareremmo ognuno qualcosa dell’altro, senza imposizioni, senza deficit. Sarebbe bello poter salire su quel ponte e venirsi incontro portando ciascuno le proprie differenze, mostrandole per quello che sono: caratteristiche, elementi che fanno di me e di te quello che siamo.

NOTA

[1] Milton, D. E. M. (2012). On the ontological status of autism: the “double empathy problem.” Disability & Society, 27(6), 883–887. doi:10.1080/09687599.2012.710008

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