Superautismo e Paternalismo

Vulvia, alias Corrado Guzzanti, con accanto la scritta: "cercatori di schemi"

Ieri ho letto un articolo in cui il ricercatore specializzato in autismo Simon Baron-Cohen parla del suo ultimo libro, The Pattern Seekers[1] (I Cercatori di Schemi). Per chi non lo sapesse, Baron-Cohen è lo studioso che alcune decadi fa ipotizzò che le persone autistiche avessero un deficit nella Teoria della Mente (ToM, o Theory of Mind, in inglese), ossia che non fossero capaci di attribuire stati mentali a se stesse e agli altri.

Questa idea, che ha viziato la narrazione sull’autismo stigmatizzando ulteriormente la categoria, è stata successivamente ritrattata dallo stesso Baron-Cohen, ma soprattutto è stata sconfessata da diversi ricercatori, tra cui Damian Milton col suo Problema della Doppia Empatia[2] (di cui ho già scritto qui) che ci spiega come le persone autistiche non abbiano un deficit nella ToM ma semplicemente utilizzino altri parametri e codici per analizzare il comportamento e inferire gli stati mental. In pratica, tra autistici e non autistici parliamo due lingue differenti, e finché non troveremo un linguaggio comune avremo sempre l’impressione di non capirci a vicenda.

Un interessante articolo[3] della dottoressa Gernsbacher, inoltre, mostra non solo come la narrazione che attribuisce agli autistici un deficit nella Teoria della Mente sia errata, ma che non sia nemmeno stato possibile replicare gli studi effettuati per crearla.

Ma Baron-Cohen da qualche anno ha creato un nuovo stereotipo che cerca di fare apparire le persone autistiche sotto una luce positiva, attribuendo loro uno stile cognitivo particolare che ha definito “sistematizzante”, ossia la propensione a trovare pattern – schemi – e ad analizzare e costruire sistemi anche complessi, teorizzata come tipica dell’autismo. Qui la definizione del ricercatore:

La sistematizzazione è l’unità per analizzare o costruire sistemi. Questi potrebbero essere qualsiasi tipo di sistema. Ciò che definisce un sistema è che segue delle regole e quando sistematizziamo stiamo provando a identificare quelle regole che governano il sistema, al fine di prevedere come esso si comporterà.”[4]

Bello, no? Superautistici con il superpotere della sistematizzazione che scovano pattern ovunque. Certo, peccato che anche questa generalizzazione non rappresenti la realtà nella quale, come confermato da un altro studio[5], solo il 55% delle persone autistiche utilizzerebbe uno stile cognitivo “sistematizzante mentre il 28% usa un approccio definito “creativo” e il 14% quello definito “raccolta di informazioni”.

Ma torniamo all’intervista in cui Baron-Cohen parla del suo libro, perché alla fine c’è una frase dello studioso che lascia comprendere cosa ci sia dietro a questo doppio carpiato con avvitamento con cui le autistiche e gli autistici sono passati da essere incapaci di inferire stati mentali, a diventare in blocco piccoli geni col superpotere della sistematizzazione.

La frase incriminata è la seguente: “Uno dei motivi per cui ho scritto il libro è stato quello di cambiare la nostra percezione dell’autismo, perché per molto tempo l’autismo è stato caratterizzato solo come una disabilità, cosa che è, ma con un focus su tutte le cose che le persone autistiche trovano difficili, con cosa esse lottano. Ma sappiamo che l’autismo è più di una semplice disabilità, che le persone autistiche pensano diversamente. A volte hanno dei punti di forza.”[6]

A parte che potrebbe apparire come un tentativo di “autismwashing”, ma è l’idea che “ l’autismo è più di una semplice disabilità” e che le persone autistiche “a volte hanno dei punti di forza” a lasciarmi perplesso. Poi ho trovato un passaggio nel libro che esplicita il carattere paternalistico di questo approccio all’autismo: “Quando le qualità iper-sistematizzanti dell’autismo sono supportate e coltivate, le abilità e i talenti unici degli individui autistici possono brillare – a loro vantaggio e a beneficio della società”[1]

Perché questo approccio mi disturba? Innanzitutto perché ci troviamo davanti all’ennesima generalizzazione che crea una realtà immaginaria in cui TUTTE le persone autistiche possiedono una qualità speciale. E poi perché trovo il modo paternalistico di avvicinarsi alla diversità (anche a quella neurologica, come l’autismo) un chiaro esempio di quell’ideale di inclusione assolutamente non paritario in cui la maggioranza “sana” o “normale” accoglie una minoranza (semplicemente minoranza statistica) benevolmente e con condiscendenza.

In generale, quando pensiamo al paternalismo immaginiamo situazioni quotidiane come il capoufficio che, con atteggiamento condiscendente, dà un consiglio alla giovane impiegata, oppure il genitore che rimprovera il figlio per una bravata. Bene, il paternalismo in realtà è una vera e propria corrente di pensiero che ha influenzato e continua a influenzare scelte politiche e sociali. [Al paternalismo ho dedicato un capitolo intero del mio nuovo libro In Altre Parole, dizionario minimo di diversità]

Questa definizione si è fatta largo nell’Europa del XVIII secolo per indicare l’atteggiamento che i sovrani assoluti del periodo mostravano verso i propri sudditi, trattati come incapaci di agire nel proprio stesso interesse e quindi bisognosi di una guida forte ma “paterna” che prendesse le decisioni giuste, per il loro bene.

L’idea di agire “per il bene di qualcuno” presuppone quindi una qualche incapacità nella persona o nella categoria oggetto dell’atto paternalistico, e soprattutto stabilisce in modo del tutto arbitrario una gerarchia di potere tra categorie, tra “noi” maggioranza benevola che si fa amorevolmente carico di “loro” – in questo caso le persone autistiche – che “a volte hanno dei punti di forza” e vengono mostrate sotto una luce positiva perché “ l’autismo è più di una semplice disabilità”.

Perché questo modo di descrivere noi persone autistiche non è migliore di quello che ci vorrebbe come esseri privi di empatia al pari di scimpanzé e robot[7]? Perché semplicemente, anche in questo caso, non corrisponde alla realtà; perché è una definizione che può essere vista come una sorta di “inspiration porn” indiretto, l’attribuzione di caratteristiche speciali, quasi sovrannaturali agli autistici e alle autistiche per renderle accettabili.

Assistiamo così alla creazione di una narrazione falsamente positiva che però, attenzione, esclude automaticamente tutte quelle autistiche e autistici che non si rispecchiano in determinate caratteristiche, aumentando il rischio di stigmatizzazione; è un racconto secondo il quale l’autisticǝ o è una creatura considerata subumana, incapace di attribuire stati mentali a sé e agli altri o è un genio ribelle e asociale.

E cosa facciamo con le persone autistiche non sistematizzatrici? Che effetto ha uno stereotipo del genere sull’intera categoria dell’autismo? Probabilmente quello di rendere accettabile solo alcunǝ di noi, quellǝ più cool, coloro che – secondo questa favola – sarebbero il motore del progresso, i cercatori di pattern, quelli che “finiscono per diventare ingegneri o artisti che mostrano originalità, uomini o donne d’affari di successo con una nuova prospettiva o scienziati che possono trovare schemi nei dati e fare scoperte”[1].

Poco importa se tutto questo alimenta una distinzione tra autistiche e autistici di serie A e serie B, tra persone neurodivergenti spendibili sul mercato del lavoro e quindi desiderabili in alcuni ambiti specifici come l’informatica, e altre che diventano escluse tra le escluse. A chi interessa se poi l’autisticǝ diventerà solo quellǝ la cui disabilità sia praticamente invisibile dall’esterno o almeno non dia troppo fastidio, che non sia d’intralcio ma anzi sia addirittura un po’ cool: ehi, sarà asociale, ma sa trovare pattern anche nei fondi del caffè!

Peccato, perché se Baron-Cohen non avesse abbracciato un discorso così riduzionista e generalizzante, se non avesse applicato a un’intera categoria – tra l’altro caratterizzata da estrema variabilità – questa descrizione che si adatta invece solo ad alcuni individui, la sua teoria sarebbe stata anche interessante. E forse, con l’aiuto di un linguaggio meno ispiratore, invece di dividere e stigmatizzare avrebbe contribuito a una narrazione plurale dell’autismo.

NOTE:
[1] Baron-Cohen, S. (2020). The Pattern Seekers: How Autism Drives Human Invention. Basic Books.
[2] Milton, D. E. M. (2012). On the ontological status of autism: the “double empathy problem.” Disability & Society, 27(6), 883–887. doi:10.1080/09687599.2012.710008
[3] Gernsbacher, M. A., & Yergeau, M. (2019). Empirical Failures of the Claim That Autistic People Lack a Theory of Mind. Archives of scientific psychology, 7(1), 102–118. doi:10.1037/arc0000067
[4] Baron-Cohen, S. (2009). Autism: The Empathizing-Systemizing (E-S) Theory. ​Annals of the New York Academy of Sciences, 156 (1), 68–80. doi:10.1111/j.1749-6632.2009.04467.x
[5] Kirchner, J. C., & Dziobek, I. (2014). Toward the Successful Employment of Adults with Autism: A First Analysis of Special Interests and Factors Deemed Important for Vocational Performance. ​Scandinavian Journal of Child and Adolescent Psychiatry and Psychology, 2 (2), 77–85. doi:10.21307/sjcapp-2014-011
[6] https://www.cbc.ca/radio/quirks/mar-13-10-years-since-japan-s-tsunami-ants-do-social-distancing-otters-save-kelp-forests-and-more-1.5946073/is-autism-the-legacy-of-humans-evolving-the-ability-to-innovate-1.5946074
[7] Pinker, S. (2002). The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature. (p.62). Penguin Books.

Se ti interessa quello che scrivo, ricorda che dal 24 marzo 2021 sarà disponibile il mio nuovo libro, In Altre Parole, dizionario minimo di diversità. Il libro è già in preordine su Bookdealer.

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