Silenzio

Ho trascorso gli ultimi mesi chiuso in casa in una specie di lockdown volontario. C’era da finire il nuovo libro, poi il lavoro e il nuovo master da fare partire. Risultato: giornate intere trascorse in quello che, dall’inizio della pandemia, è diventato il mio studio. Una stanzetta minuscola con una finestrina sotto la quale abbiamo piazzato una piccola scrivania. Tutto in miniatura.

Da dentro a questo ripostiglio riabilitato a studio ho osservato il mondo. Ho visto gente dallo schermo del mio computer, tanta gente, ho letto libri, articoli e studi e assistito a un paio di corsi, tutto nei miei cinque metri quadrati.

La mattina, tra le cinque e le sei, senza nemmeno il bisogno di mettere la sveglia, la tensione per il libro da finire mi tirava giù dal letto trascinandomi alla macchinetta del caffè. E poi a scrivere. Non è una cosa terribile, ci si abitua in fretta. Anzi, quelle prime ore al mattino, quando fuori è ancora buio e il mondo intorno a me ancora dorme, sono state le più belle di quest’ultimo periodo.

Il mio cortile al mattino quando tutti dormon o: una serie di palazzi antichi, balconi e terrazzi, panni stesi.

Il profumo del caffè che invade la stanzetta, la finestra aperta sul patio silenzioso e buio. La città addormentata, si sente solo di tanto in tanto il rumore del vento tra i palazzi e il cinguettio degli uccelli nelle gabbiette del vicino di fronte. Canto di prigionia, quel cinguettare triste come lo squallore rassicurante di questo panorama urbano fatto di cemento, panni stesi, balconi disordinati e solitudine.

Il momento migliore della giornata in questo periodo è stato appena dopo il risveglio, prima dell’alba, dicevo. Perché c’è silenzio.

Lo sottovalutate, il silenzio, me ne sono reso conto in questi mesi. A mano a mano che la gente si sveglia quella immobile assenza di suoni viene incrinata da una radio in lontananza, dal rumore di una moto e dalle voci delle persone che cominciano a parlare, a comunicare. Ma la cosa peggiore è la musica. Onnipresente, massacrante.

Fa paura, il silenzio, non c’è altra spiegazione. Fa paura l’assenza di distrazione, quell’invito a rivolgere lo sguardo verso se stessǝ, a pensare. Ad affrontarsi. E allora lo riempiamo di musica, di televisori accesi perennemente perché “fa compagnia”; chiudiamo ogni spiraglio affinché non possa entrare nemmeno uno spiffero di quell’assenza di suoni nelle nostre vite, ché altrimenti saremmo costretti a guardarci dentro.

Arrivo a mezzogiorno che mi sento impazzire, circondato dal rumore e dalle note di musiche che si attorcigliano stridendo. Musica ovunque, dal vicino di sotto che si allena al ritmo di Britney Spears a quella di sopra che vive di pane e reggaeton al percussionista di fronte che accompagna la radio, sempre fuori tempo. Musica spagnola degli anni 80 per i miei vicini di pianerottolo, musica indiana per quelli in fondo al patio e italiana per la pizzeria, forno a legna, musica e bestemmie a 1 euro e 50 al pezzo.

Così io sono costretto a mettere le cuffie, e dalle otto ogni mattina fino a sera vivo agganciato a youtube. Ho una compilation infinita di musica antica suddivisa per emozioni: quella triste, quella per tirarmi su, quella allegra, vittoriosa, languida; la musica per sedare la rabbia di non poter stare in silenzio. Perché nel casino che mi circonda perfino le emozioni svaniscono e si trasformano in ansia, e allora bisogna aiutarle. Ansia per quella marmellata sonora nella quale solo io sembro incapace di respirare.

La mattina, tra le cinque e le sette e mezza, otto, è l’unico momento in cui riesco a godermi il silenzio e lasciare che le emozioni fluiscano da sole, che i pensieri si rincorrano liberi. Poi l’horror vacui, la paura di poter lasciare anche un piccolissimo spazio di silenzio, prende il sopravvento.

Per una persona come me, ipersensibile ai suoni e ai rumori, è qualcosa di simile all’inferno e no, non posso andare a vivere in campagna, non adesso anche se vorrei. Non fino a che lavorerò in città. Per me, autistico con ipersensibilità uditiva, è davvero difficile, a volte impossibile evitare di esplodere perché il sovraccarico sensoriale è dietro l’angolo. Basta che il mondo si svegli, che si accenda la prima radio e poi la seconda e la terza e poi i televisori in un’escalation di suoni e rumori nella quale i miei sensi cominciano a chiedere pietà.

E allora rispondo male a chiunque, divento irritabile e arriva la stanchezza, l’ansia e la gastrite, e l’unica soluzione è mettere le cuffie e incatenare i miei pensieri, le mie emozioni. Perché il silenzio, alla gente, fa paura. Così, per il resto della giornata attendo paziente che arrivi la sera, infilo i tappi di spuma nelle le orecchie perché la musica continua fino a tardi e mi addormento aspettando il risveglio, quel momento di pace in cui il mondo è solo mio. Le luci spente, il vento tra i palazzi, gli uccellini in gabbia che cinguettano il loro canto triste. E i miei pensieri.

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