(Neuro)diversità

Da quando ho cominciato ad andare in giro per l’Italia a presentare Eccentrico, raccontando la mia storia, molte delle certezze che credevo di aver acquisito negli anni hanno cominciato a vacillare fino a crollare, lasciandomi con una quantità enorme di domande alle quali quotidianamente provo a dare risposta.

Quando ho scritto Eccentrico avevo un obiettivo concreto: spiegare l’autismo in modo semplice a chi non sa cosa sia veramente, a tutte quelle persone che ancora hanno un’immagine di questa condizione legata a stereotipi negativi e sorpassati. Volevo spiegare che i cosiddetti deficit che ancora infestano i manuali diagnostici sono in molti casi differenze, e per farlo ho pensato che il modo migliore sarebbe stato metterci la faccia, utilizzare la mia storia, perché le storie personali coinvolgono emotivamente e fanno riflettere; nelle storie ci si può identificare, cosa che i saggi di carattere puramente scientifico raramente riescono a fare.

L’obiettivo credo sia stato in parte raggiunto, ma in me è sorta un’inquietudine ancora maggiore, e ha cominciato a manifestarsi già dai primissimi incontri coi lettori nelle librerie. Il fatto è che mi sono accorto di quanto realmente il problema dell’inclusione della diversità abbia bisogno di un approccio culturale. Inclusione e diversità, due parole che ultimamente mi sono trovato a ripetere con sempre maggiore enfasi, due concetti a cui l’autismo è legato in quanto una delle tante diversità presenti nella nostra società.

In più di un’occasione, durante le presentazioni, ho visto come da un lato le persone presenti provassero un forte desiderio di conoscere, quasi con avidità, particolari e aneddoti sull’autismo, e dall’altro fossero proprio loro a spingere il discorso verso le differenze in modo più generale, non solo in relazione alla condizione autistica.

Ho scoperto con piacere che gli stereotipi sono più facili da smontare di quanto pensassi. Quando comincio a scendere nei dettagli descrivendo alcuni comportamenti, spiegandone i possibili motivi, l’attenzione è sempre altissima. Il pubblico ascolta senza fiatare, nessuna domanda, solo occhi che mi fissano in cerca di informazioni con la speranza di poter capire meglio il proprio figlio, il compagno o l’amica, gli alunni.

Poi, inesorabilmente, il discorso giunge a un punto in cui sono loro, gli altri, a voler raccontare proprie storie, e si comincia a parlare di diversità e delle difficoltà che l’essere diversi rappresenta in una società che questa diversità tende a emarginarla, che tuttalpiù cerca di integrarla.

Genitori preoccupati per il futuro dei propri figli perché la famiglia e gli amici ormai hanno capito ma il mondo no, il mondo continua a sbeffeggiare e a escludere. Insegnanti che non sanno che pesci prendere perché nella maggior parte dei casi arrivano impreparati all’incontro con la diversità e si vedono circondati dall’indifferenza delle istituzioni che sembrano non avere alcun interesse nell’accogliere le persone per quello che sono.

Il quadro che è emerso, allo stesso tempo fa sperare e cadere le braccia. Da un lato ci sono gli individui: gli autistici e le loro famiglie, gli insegnanti, che si trovano a contatto con la vita reale ogni giorno. Persone che singolarmente cercano soluzioni, a volte sbagliando, ma ci provano; sono quelli che vorrebbero si smettesse di guardare alle loro differenze (e a quelle dei propri cari) come a un handicap. Queste persone hanno una comprensione molto profonda delle difficoltà che possono derivare dall’interazione col mondo.

Dall’altra parte c’è la società che si muove come un organismo unitario, in cui le singole differenze vengono appiattite dalla necessità di uguaglianza. La società ragiona per categorie, e non potrebbe fare altrimenti; esclude chiunque mostri comportamenti non in linea con le regole che si è dettata. Queste regole sono in realtà estremamente fluide e cambiano di continuo, si evolvono senza sosta col fine ultimo di garantire all’organismo sociale un funzionamento pratico.

Non è che quella di creare categorie sia una caratteristica esclusiva delle società. Ogni individuo in realtà acquisisce principalmente le informazioni sul mondo nel quale si muove raggruppando gli oggetti in categorie. Se non facessimo così non sapremmo che un platano e un tiglio sono alberi, o che paura e gioia sono emozioni. Ovviamente, per poter riunire più oggetti in una categoria, per poterli etichettare, dobbiamo ridurre le differenze, altrimenti è un casino. E più la categoria è specifica, più le differenze tra gli elementi che la compongono devono essere minimizzate.

Quello che ne emerge è uno scontro tra mondi diversi. Nel caso specifico tra il mondo dell’autismo (tanto di chi lo vive in prima persona come autistico quanto di chi lo vive estremamente da vicino come i genitori, gli amici, gli educatori) e il mondo neurotipico. E anche queste, ovviamente, sono delle generalizzazioni, perché sappiamo tutti benissimo che anche tra gli autistici esistono differenze enormi e che l’etichetta diagnostica è anch’essa una categoria.

Prendendo comunque per buona questa divisione, rimane il fatto che si tratta di due mondi con caratteristiche proprie abbastanza definite, con necessità differenti.

La maggior parte di quei deficit che vengono attribuiti normalmente agli autistici perdono lo status di deficit nel momento in cui ci si introduce nel mondo autistico e si comincia a comprenderlo da dentro. Quando si smette di paragonare ogni comportamento al corrispettivo neurotipico – prendendo il neurotipico come riferimento a una presunta normalità – quel comportamento non appare più deficitario ma normale, seppure in riferimento alla categoria Autismo.

Basterebbe fare un esercizio semplice come quello di ribaltare il punto di vista, immaginando il mondo autistico come standard di normalità per vedere immediatamente la maggioranza dei comportamenti neurotipici come deficitari. In un mondo a maggioranza autistica la neurotipicità sarebbe una sindrome i cui criteri diagnostici potrebbero essere, che so, un bisogno eccessivo di socializzazione fine a se stessa, un deficit nella percezione degli stimoli sensoriali (iposensorialità che porterebbe alla necessità di essere costantemente stimolati a livello uditivo, visivo, tattile…). Insomma, le cose acquisiscono forme diverse a seconda del punto di vista.

Quando suggerisco di spostare di più l’attenzione sull’autismo (e alla neurodiversità in generale) come fenomeno sociale e culturale, mi riferisco quindi alla necessità di trasformare questo scontro tra due mondi diversi in un incontro. Non voglio sembrare né semplicistico né banale, non è mia abitudine sottovalutare la complessità di certi fenomeni, eppure trovo che il nodo della questione sia proprio quello del farsi comprendere da un mondo che, per forza di cose, sembra troppo spesso non provarci nemmeno. E dico per forza di cose perché loro sono la maggioranza, e fondamentalmente agli individui che compongono una maggioranza le istanze delle minoranze cominciano a interessare o quando ne sono coinvolti personalmente, o quando il messaggio, la richiesta di attenzione, è estremamente chiaro e coinvolgente.

Se insisto sul fatto che non è utile definire l’autismo una malattia, parlare esclusivamente di deficit, cercare di “normalizzare” comportamenti, lo faccio perché trovo che sia del tutto inutile se non deleterio se lo scopo è quello di vedere gli autistici come membri della società a tutti gli effetti. In particolare, se vogliamo che la neurodiversità sia considerata una possibile variante del comportamento umano, allora lo sforzo da fare è quello di farsi capire, di mostrare quanto in condizioni di tranquillità, quando i modelli di riferimento neurotipici non vengono imposti, i problemi diminuiscono, i deficit diventano spesso differenze e l’interazione tra realtà differenti è un arricchimento per tutti.

Non è un concetto tanto complesso, ma proprio per la sua semplicità può generare reazioni negative. Capita spesso, in tante aree della nostra vita, di essere infastiditi da comportamenti che ci appaiono fuori dai nostri canoni. L’evoluzione culturale di una società però consiste anche nel mettere in discussione le proprie convinzioni, nel ragionare in modo chiaro su quelle idee che istintivamente porterebbero a risultati dannosi per alcuni pur non regalando nessun beneficio agli altri. In parole povere, se istintivamente tendiamo a guardare alle differenze con sospetto, non vuol dire che sia giusto seguire questo istinto dal momento che non solo è dannoso per i diversi, ma non rende nemmeno ai normali la vita più facile.

Concludo questo mio pensiero con un chiarimento. Se tanto spesso insisto sulla necessità di un cambiamento culturale nei confronti della neurodiversità (e della diversità in generale) non è per minimizzare l’importanza dell’aspetto medico-scientifico, anzi, quello è fondamentale per poter comprendere con chiarezza i motivi di alcune differenze (quando è possibile) e poter ricercare strategie volte al miglioramento della vita dei neurodiversi.

La mia insistenza sulla prospettiva culturale è spinta dal disequilibrio tra questi due elementi (cultura della diversità e scienza), e dall’esigenza che la prospettiva socioculturale venga riconosciuta come imprescindibile nel cammino verso l’inclusione reale di tutte le persone che manifestano comportamenti e modi di percepire ed elaborare la realtà differenti dalla maggioranza, altrimenti rimarremo sempre legati a quel modello medico che vede le differenze come difetti.

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