L’autismo e il tempo. La storia di cinqueminuti

Questa è la storia di Cinqueminuti, che crebbe senza mai diventare adulto.

Cinqueminuti aveva anche un nome vero, ma a casa la mamma e il papà lo chiamavano così perché per lui il tempo era un’entità astratta e incomprensibile, e l’unico modo che conosceva per misurarlo erano i suoi 5 minuti.
«Vieni a mangiare, è pronto a tavola!» gli urlava la mamma dalla cucina.
«Sì, solo 5 minuti!» rispondeva lui, la testa china sulla piastra di vetronite su cui saldava senza sosta resistenze, diodi e condensatori ogni pomeriggio appena tornava da scuola.
«Cinqueminuti, vieni che si raffredda!» ripeteva senza più speranze la mamma ormai al caffè.
«Arrivo, ho quasi finito, ancora 5 minuti!» e giù un’altra gocciolina di stagno a fissare una piccola resistenza a righe rosse e gialle.
La durata di quei suoi 5 minuti era talmente flessibile che poteva andare dai 30 secondi alle tre ore, tutto dipendeva da quanto Cinqueminuti fosse stato risucchiato nel suo mondo di circuiti stampati, di libri e di musica.
«Cinqueminuti, sbrigati, che farai tardi a scuola.»
«Cinqueminuti, mi serve una mano a spostare il mobiletto della cucina.»
«Cinqueminuti!…»

Cinqueminuti non usava l’orologio. Non sopportava quella cosa che gli stringeva il polso ammanettandolo a una realtà fatta di doveri senza senso, e poi riusciva a sentirne il ticchettio anche per la strada, nel traffico dell’ora di punta.
Nel suo mondo, il tempo era quello necessario a fare le cose importanti.
Perché avrebbe dovuto scandire i secondi in cui viaggiava per luoghi sconosciuti tra le pagine di un libro? Avrebbe smesso di leggere quando era il momento, quando la storia glielo avesse suggerito.
Come faranno gli altri a decidere in anticipo quanti minuti avranno voglia di stare seduti a giocare, ad ascoltare musica, a scrivere una storia? Si domandava Cinqueminuti.
E non è che non capisse come funzionava, questa cosa del tempo, mica era stupido. C’era la necessità di scandire l’esistenza di ciascuno perché altrimenti non ci si sarebbe sincronizzati gli uni con gli altri, e sarebbe stato impossibile vivere tutti insieme.
Però, il tempo è la mia vita, pensava nel letto aspettando che arrivasse il sonno; il tempo è fatto dal sole che sorge e poi tramonta, dalle cose che ci infilo dentro, dai pensieri e dalle emozioni che restano finché è necessario. Il tempo è una passeggiata in campagna iniziata quando il sole è alto e terminata quando le ombre si allungano, e l’aria si fa più fresca e profuma di sera.
Il tempo è riuscire a finire il circuito di un temporizzatore o il capitolo di un libro. Gli adulti ingabbiano il tempo, lo fanno a pezzettini e poi vivono nell’ansia perché non riescono mai fare in modo che scorra da solo come l’acqua.

Sorprendentemente, Cinqueminuti era sempre puntuale agli appuntamenti perché lo sapeva, che non si arriva in ritardo, e allora si armava di santa pazienza, metteva la sveglia una, due, tre volte, scriveva tutto sul calendario e così riusciva a essere sempre in orario. Perché è giusto così.
E si arrabbiava quando gli altri erano in ritardo, perché lui ci metteva molto impegno a essere puntuale, rinunciava a fare le cose che amava fare, interrompeva la lettura sul più bello per lavarsi i denti e uscire di casa; si impegnava per suddividere il tempo come tutti gli altri, quando era necessario. Ma solo quando era necessario, perché quando lui faceva il tempo a pezzettini poi ci stava male, non riusciva a fare le cose veramente per bene e soprattutto arrivava l’ansia.

Scandire il tempo gli faceva battere forte il cuore e sudare le mani: la sveglia suonava, il calendario segnava “telefonare al dottore”, e il cuore faceva un tonfo nel petto e cominciava a correre. Cinque minuti e chiamo, pensava, solo cinque minuti. Ma aveva imparato che le cose del mondo degli adulti andavano fatte immediatamente, o non le avrebbe fatte mai più. Allora prendeva un respiro, immaginava di essere Rambo in Vietnam e alzava il telefono.

Il pane impiega più o meno tempo a lievitare a seconda della temperatura, dell’umidità e della quantità di lievito nell’impasto, spiegava Cinqueminuti ai genitori quando lo rimproveravano per aver saltato la cena un’altra volta. Mica si può infornare la pagnotta quando ancora non è cresciuta! bisogna aspettare, altrimenti viene su male.

Cinqueminuti crebbe ma, per sua fortuna, non diventò mai adulto.

Al mattino indossava la biancheria, i pantaloni e la maglietta, il maglione blu, le scarpe e la maschera, e andava a lavorare. Si lasciava trascinare da quella frenesia, contava i pezzettini di tempo come gli altri, era bravissimo a programmare quanti pezzettini servivano per mandare una e-mail o scrivere una lettera. Sorrideva gentile a tutti e faceva finta di essere felice mentre sotto la maschera l’ansia gli rosicchiava il cuore.
Poi, appena tornava a casa, toglieva il giubbotto, le scarpe e quella maschera pesante che gli lasciava dei segni sul volto ogni giorno più profondi, accendeva il computer e cominciava a scrivere.

E allora, come sempre, il tempo riprendeva a scorrere per conto proprio e le cose ritrovavano la loro forma naturale. Rientrava nel suo mondo fatto di storie, di libri e musica, di passeggiate interminabili senza una meta e di coccole al suo gatto.

«È pronto a tavola!» grida la voce dalla cucina.
«Cinque minuti e arrivo!» risponde lui dal suo studio, il capo chino sulla tastiera del computer, la musica nelle cuffie e il mondo di fuori sospeso in quell’attimo sacro senza tempo.

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