La coordinazione sociale nell’autismo

Spesso ho sottolineato l’importanza di un approccio sociale e culturale, e non solo medico, all’autismo. È ancora vivo e vegeto tra la gente lo stereotipo dell’autistico asociale, completamente chiuso in se stesso e incapace di comunicare, mentre un numero tutt’ora elevato di studi, articoli scientifici e libri specialistici definiscono l’autismo un disturbo caratterizzato prima di tutto da deficit nell’area sociale. Il linguaggio medico, fondamentale in un ambito specifico, ha contribuito a far passare questa idea di socialità deficitaria e difettosa anche al pubblico. Eppure io sono convinto che sia un’idea errata, quantomeno riduttiva.

Sia nel mio lavoro con bambini e adolescenti neurodiversi che come persona nello spettro autistico, mi sono trovato a interagire con gruppi anche numerosi di autistici, e ogni volta mi ha colpito il livello estremamente alto di socializzazione. Una differenza che ho notato tra i gruppi di neurotipici e quelli di autistici, è che in generale le persone nello spettro autistico mostrano maggiore rispetto per le modalità di interazione di ciascun membro del gruppo senza che le differenze siano motivo di esclusione, giudizio o scherno, cercando invece di utilizzare gli elementi comuni per facilitare la comunicazione.

Dal punto di vista di un neurotipico che è cresciuto utilizzando sempre e solo una determinata modalità di interazione con gli altri, l’autistico può apparire poco socievole, a volte scontroso e chiuso in se stesso. D’altra parte, agli occhi di un autistico anche la socialità neurotipica risulta a volte incomprensibile. Spesso si fa fatica a comprendere il perché di alcune convenzioni come la necessità di guardarsi negli occhi quando si parla o il toccarsi, baciarsi e abbracciarsi quando ci si saluta.

La mia personale idea è che la maggior parte di quei deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale siano tali esclusivamente se le aree a cui si riferiscono sono giudicate da un’ottica neurotipica che, invece di guardare alle varie possibilità esistenti per raggiungere uno scambio di idee, emozioni e sentimenti, si muove considerando le proprie modalità sociali come le uniche possibili.

Visto che uno dei miei interessi assorbenti è lo studio delle dinamiche psicologiche alla base dei comportamenti, nelle mie ricerche mi sono imbattuto in un interessante articolo[1] che conferma questa idea.

Alla base dell’articolo c’è l’ipotesi secondo cui in una società esistono diverse possibilità comunicative che, in un numero maggiore o minore di casi, si sovrappongono, si coordinano, facilitando l’interazione. Questo concetto è spiegato all’inizio: “L’intero repertorio di una comunità […] è di solito non condiviso da tutti i membri, anche se alcune parti dei loro repertori si sovrappongono. Estendiamo qui la nozione di repertorio per riferirci a repertori di coordinazione sociale e all’idea che i membri delle comunità siano dotati di distinti repertori di coordinazione sociale in parte sovrapposti e in parte organizzati per via individuale e socioculturale.”

In pratica, le autrici hanno identificato una serie di elementi nella comunicazione neurotipica che, quando rivolta ad autistici (di differente livello funzionale), generano incomprensioni in quanto non condivisi da entrambi i gruppi. E queste incomprensioni contribuiscono a creare quello stereotipo che vede la comunicazione autistica come difettosa in confronto a quella della maggioranza neurotipica. Stereotipo che potrebbe essere smentito se si cercasse di trovare da un lato quei punti di contatto tra le due differenti modalità di socializzazione (neurotipica e autistica) e, dall’altro, se si provasse a individuare alternative nella comunicazione ordinaria che possano essere utilizzate e comprese anche dalle persone neuroatipiche.

In particolare nell’articolo è spiegato come “la gamma di possibilità per il coordinazione sociale tra le persone autistiche [anche con basso funzionamento] e gli altri [neurotipici] non è così ristretta da giustificare la conclusione che i membri del gruppo autistico sono incapaci di socialità. Invece, le persone autistiche possiedono una gamma caratteristica di possibilità di coordinazione sociale che è modellata non solo dalla loro condizione, ma anche dalle pratiche socioculturali delle comunità in cui vivono e dagli interlocutori con cui interagiscono.”

Alcuni degli elementi che generano questo fraintendimento, riportati dalle autrici, sono la sequenza e l’argomento della conversazione, ossia la capacità di interpretare e anticipare i differenti passaggi di un discorso. In pratica l’incomprensione è generata dal fatto che i due gruppi sociali danno un peso differente ai vari elementi di una conversazione; argomenti che possono apparire estremamente importanti per un autistico potrebbero non esserlo per un neurotipico e viceversa. Parliamo quindi di quelle risposte degli autistici che possono apparire fuori contesto, dei cambi di argomento repentini o dell’incapacità spesso di sostenere una conversazione lunga e ordinata (secondo determinati criteri) su un tema che potrebbe non interessare particolarmente.

L’allineamento corporeo è un altro elemento di dissonanza tra i codici comunicativi neurotipici e neurodiversi.

Secondo le autrici (cosa che confermo per esperienza personale) noi autistici siamo vulnerabili al sovraccarico sensoriale quando posizionati faccia a faccia con l’interlocutore e specialmente quando, seguendo i canoni neurotipici, per mostrare attenzione in una conversazione veniamo forzati al contatto oculare, cosa che per natura tendiamo a evitare. Le ricercatrici fanno notare come sia stato dimostrato che, per migliorare la comunicazione con un autistico, a volte sia sufficiente posizionarsi uno accanto all’altro (ad esempio su un divano) e non forzare il contatto oculare a ogni costo.

Collegato al punto precedente, c’è quello degli oggetti che possono mediare l’interazione. Computer, telefoni, penne e matite, secondo l’articolo, aumentano la possibilità di comunicazione. Guardare lo schermo di un computer o un pezzo di carta offre un ambito di coordinazione sociale a distanza più adatto alle modalità di molti autistici. Inoltre, anche se il linguaggio verbale è il mezzo principale di comunicazione per la popolazione neurotipica, non è necessariamente il mezzo ottimale per gli autistici, che in alcuni casi possono avere un linguaggio verbale scarso o nullo.

La maggior parte degli interventi clinici nell’autismo  si concentra sullo sviluppo delle capacità verbali come obiettivo finale.

Tuttavia, è documentato che molti autistici non verbali possono comunicare attraverso altri canali semiotici, come indicare lettere e numeri su un tabellone, raggiungendo risultati molto migliori rispetto alle loro possibilità verbali. Secondo le autrici “[l’atto di] indicare non è solo un precursore dello sviluppo del linguaggio, ma anche un’alternativa semiotica opportuna per migliorare il potenziale [comunicativo] dei bambini autistici.”

Una cosa che ho notato spessissimo all’Istituto, lavorando con bambini e adolescenti nello spettro autistico è l’uso del cosiddetto Maternese (baby talk in inglese) quando ci si rivolge a loro. È un linguaggio normalmente utilizzato dalle madri nei confronti dei figli piccoli e consiste in un uso estremo e amplificato di un tono di voce acuto, bambinesco, di una intonazione esasperata e una sottolineatura forzata del contenuto emotivo di ogni parola. Questo tipo di linguaggio viene spesso utilizzato da familiari, insegnanti e terapisti nei confronti di persone autistiche soprattutto quando il livello di interazione e comunicazione verbale appare limitato. Secondo l’articolo “registrazioni video […] indicano un maggiore coinvolgimento sociale quando gli interlocutori parlano con affetto moderato e un ritmo moderatamente rapido. In pratica, la socialità autistica sembra essere più fluida quando gli interlocutori evitano il maternese”.

L’articolo conclude sostenendo che, nell’ambito delle capacità sociali, le persone nello spettro autistico mostrano una maggiore propensione alla socialità di quanto si pensi comunemente e che la socialità delle persone autistiche e della popolazione neurotipica non sono categoricamente distinte. Piuttosto, “la socialità autistica aumenta e diminuisce in relazione alle condizioni sociali e interazionali. La socialità di autistici non verbali, per esempio, può essere oscurata dalla mancanza di lingua parlata, ma quando viene loro permesso di comunicare attraverso altre modalità […] la loro socialità si manifesta.”

Gli studi analizzano dati e raggiungono conclusioni che spesso confermano sensazioni e intuizioni frutto dell’esperienza personale, e sono utili per conferire autorevolezza a quelle che potrebbero rimanere le opinioni di un singolo individuo. Eppure io vorrei che il racconto in prima persona della neurodiversità venisse preso in maggiore considerazione, perché non è possibile riuscire ad avvicinare due mondi che nonostante la loro diversità hanno dei punti di contatto, se gli elementi comuni non li cerchiamo insieme. E non si riuscirà mai a riconoscere quei punti di contatto fino a quando un gruppo vedrà l’altro come inferiore, scartando a priori ogni possibilità di incontro tra le differenti modalità di funzionamento sociale in quanto una è vista come deficitaria.

Nota:

[1] Ochs, E. & Solomon, O. (2010). Autistic Sociality. Ethos: Journal of the Society for Psychological Anthropology_ 38 (1):69-92.

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