Musica, disabilità e inclusione a Bergamo

All’età di 10 anni, frugando tra i dischi dei miei genitori, trovai un 33 giri dello Schiaccianoci di Tchaikovski. Misi su il disco, e da quel momento la musica è diventata il centro della mia vita. Musica classica, anzi, musica barocca.
 
Certo, qualche problema c’è stato per far capire agli altri quanto fosse importane per me. La musica ha segnato l’inizio delle tragedie familiari, le mie due fughe da casa perché volevo iscrivermi al conservatorio ma no, tu non stai bene, che vuoi fare nella vita?
 
Eppure la musica era la mia compagna in quelle lunghe giornate solitarie. Non mi tradiva mai, avvolgente, a volte tagliente come un pugnale affilato.
 
Lo studio della musica mi ha insegnato a unire i puntini, a creare una visione d’insieme da tutti quei dettagli che catturano incessantemente la mia attenzione. Me lo ripeteva ossessivamente, la mia insegnante: “non si capisce il senso, sembrano tutti pezzettini separati tra loro, non c’è unità, direzione”. E lì ho capito come fare, qual è la struttura di una frase, e come tante frasi formano un discorso. Certo, non è una cosa proprio naturale, ma l’ho capita senza sforzo, attraverso la musica.
 
Quando facevamo le prove col gruppo di musica antica, il direttore e il cantante discutevano di intonazione, di prosodia, spiegavano la retorica e io ne facevo tesoro.
 
La musica mi ha fatto capire che se voglio una cosa devo rispettare dei tempi prima di poter averla. Ho sempre avuto la tendenza a desiderare tutto subito, e sicuramente non sono l’unico. Eppure suonando il pianoforte, studiandolo seriamente in conservatorio ho imparato che il percorso, il “fare” è estremamente più importante e in molti casi anche più bello del momento finale, del risultato.
 
La musica mi ha aiutato a disciplinarmi, a scomporre compiti impegnativi e mastodontici in tanti piccoli pezzettini da affrontare in modo più agevole, senza ansia o timore. Ho imparato che il tempo va scandito e controllato, e anche se pure questo è un concetto acquisito e non automatico, almeno l’ho appreso e senza quasi accorgermene.
 
Ma il motivo per cui la musica non è solo uno dei miei interessi speciali, la ragione per la quale se penso a una vita senza poter suonare o ascoltare la mia musica mi assale il terrore, non ha niente a che fare con questi utilissimi apprendimenti collaterali. Il motivo della necessità della musica nella mia quotidianità è la profondità con cui riesce a toccare le mie emozioni.
 
Senza il bisogno di parole, bastano dei suoni. E infatti adesso sono bloccato, le parole mi appaiono insufficienti per spiegare l’immensità che mi si apre dentro quando suono o quando ascolto la mia musica preferita. Viaggio, visito luoghi dentro di me che normalmente mi sono inaccessibili, sento le emozioni che erano racchiuse, stipate nel mio corpo, liberarsi e provocarmi sensazioni fisiche.
 
La scelgo con attenzione, la musica, perché per me è un mezzo per capirmi; la uso innanzitutto per amplificare le emozioni che a volte mi passano dentro senza che me ne accorga, quasi senza lasciare traccia ma anche per lasciare sfogare quei sentimenti troppo intensi e violenti da poter rimanere dentro senza causare un’esplosione devastante.
Io da ragazzino non avevo idea che certe cose poi le avrei studiate, ci avrei scritto articoli, fatto conferenze, lavorato negli ospedali. Ero solo un ragazzo che non riusciva ad andare avanti, che sentiva il peso della vita schiacciarlo senza capire il perché, che viveva la solitudine come una condanna infame e allo stesso tempo una benedizione. E la musica era lì, sempre con me, ovunque andassi. Musica nella mia testa quando i rumori erano troppo forti o i compagni di scuola mi prendevano in giro, musica quando non volevo dargliela vinta a una vita incomprensibile, musica quando ero felice, per scolpire quei rari momenti di gioia nell’anima, legandoli a un preludio di Chopin, a una gavotta di Bach.
 
Sono appena tornato da tre giorni a Bergamo per presentare Eccentrico, e mi ha compito moltissimo la presenza attiva della musica come strumento di inclusione, sviluppo personale e coesione sociale. C’è un laboratorio di musicoterapia al liceo a cui partecipano ragazzi disabili insieme ad alcuni compagni dell’indirizzo musicale che li aiutano.
 
E poi hanno fondato un’orchestra sinfonica formata da disabili, fanno un corso di tre anni, concerti su concerti, registrano dischi. Provate a immaginare la soddisfazione e il senso di inclusione per una persona che è sempre stata vista come malata, difettosa, immaginate l’importanza di poter anche solo suonare un colpo di grancassa al momento giusto durante un concerto, circondata da altri ragazzi tutti diversi ma accomunati dalla stessa voglia di fare, di partecipare, di emozionarsi ed emozionare.
 
Lo so, questo articolo è diverso dagli altri, forse apparirà troppo sdolcinato ma non m’interessa. Quando parlo di musica, di quanto da ormai 35 anni sia il centro della mia vita, mi emoziono sempre. È la mia unica debolezza, la musica. A Bergamo ho trovato una realtà che mi ha emozionato, appoggiata dalle istituzioni locali, e sarebbe bello potesse diventare un’esperienza comune a tante altre città.
 
Sicuramente la musica non cura i problemi fisici né elimina quelli psicologici legati alla disabilità, questo lo sappiamo tutti. Quello che io però so, e di questo sono sicuro, è che cura l’esclusione, guarisce dall’indifferenza, fa sentire vivi, emoziona.

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