Venerdì pomeriggio ho dato una lezione agli alunni del primo anno del master in musicoterapia: autismo e musica.
Dopo aver guardato insieme un video di D., un ragazzo autistico non vedente e non verbale, spiego agli alunni che lui comunica esclusivamente attraverso la musica. Ha sviluppato un suo un repertorio di melodie e col tempo la terapeuta ha capito che ognuna di quelle melodie è legata a un particolare stato d’animo o a una richiesta specifica.
«Ecco, questa la suona sempre quando è nervoso, non vuole che suoni insieme a lui, desidera essere lasciato solo», spiega la musicoterapeuta mentre guardiamo di nuovo il video.
«Adesso cambia la melodia, si sente più tranquillo, quando passa a quest’altra melodia vuole che suoni con lui. Vedete, adesso sorride», dice.
Spiego agli alunni che dall’esterno può sembrare insignificante, ma questo è il canale di comunicazione che D. ha stabilito con noi e ne siamo felici, rispettiamo le sue modalità e i suoi tempi di comunicazione.
A questo punto, un alunno domanda se non abbiamo mai pensato di spingerci oltre cercando di farlo interagire con altri mezzi che non fossero la musica. Insomma, raggiunto questo obiettivo, perché non provare a comunicare in un altro modo?
Gli domando quale sarebbero questi altri mezzi, se non si riferisca semplicemente a modalità neurotipiche. Allora gli racconto che questo ragazzo autistico e non vedente viene portato dai genitori in un centro di educazione speciale ogni mattina. Lì viene sottoposto a terapie di vario tipo, tutte finalizzate a normalizzare certi comportamenti, a farlo parlare, a farlo muovere come ci si aspetterebbe che faccia un ragazzo neurotipico. Spiego al mio alunno che quando poi D. torna a casa, i genitori continuano a insistere sulla stessa linea, e che le aspettative e le richieste che la società gli impone quotidianamente non fanno altro che sottolineare costantemente quella che dall’esterno appare semplicemente come incapacità di essere normale.
A noi questo non interessa, dico all’alunno, noi vogliamo che per un’ora lui possa stare bene, godere della cosa che più lo rende felice, la musica, e comunicare con noi utilizzando il pianoforte. Domando per quale motivo una persona che sicuramente ha delle difficoltà che rendono la sua vita estremamente difficile, debba inoltre essere forzata a essere ciò che non è quando sarebbe molto più facile per gli altri andargli incontro. E questo non significa negare che quelle difficoltà si traducano, nella quotidiana interazione col mondo, in disabilità.
Nessuno nega che sia difficile per dei genitori avere un figlio diverso, un figlio che non sarà mai indipendente, ma appunto perché non sarà mai come gli altri, sarebbe forse giusto evitare di imporgli di non essere se stesso. Quante persone si sono prese la briga di capire se D. realmente non comprenda quello che gli viene detto o semplicemente non è e non sarà mai come ci si aspetterebbe che fosse? Come si sentirebbe una persona neurotipica se gli venisse imposto di non parlare, di non rispondere alle domande e di comunicare esclusivamente attraverso una serie di melodie solo perché la maggioranza fa così? Forse proverebbe a ribellarsi, probabilmente si sentirebbe frustrata, tanto.
Noi abbiamo scelto di rispettare i limiti di D. e avvicinarci a lui provando a comprendere quale sia la modalità di comunicazione che preferisce, forse l’unica che gli riesce di utilizzare. Crediamo che vada rispettato il bisogno di solitudine che ci mostra chiaramente quando non vuole che gli si parli o si provi a interagire con lui. Speriamo che quell’ora alla settimana riesca a renderlo felice, a fargli sentire che lì ha uno spazio in cui può essere ciò che desidera, ciò che la sua natura gli permette di essere senza che la sua diversità sia un marchio di inferiorità; una diversità carica di difficoltà che, ripeto, nessuno si sognerebbe mai di negare, e anzi proprio perché di queste enormi difficoltà siamo consapevoli desideriamo che, almeno per qualche momento, possa essere felice di essere se stesso.